"Un Primo Ministro può nominare un Lord. Ma non può fare di un uomo, un gentiluomo".
E' una delle frasi che più colpiscono de "La classe non è acqua", la più recente "fatica" letteraria di Antonio Caprarica, popolare volto del Tg1 da Londra, già inviato in Medio Oriente, Mosca e Parigi, e negli anni scorsi direttore dei Giornali radio Rai.
Una piacevolissima conoscenza quella di cui mi ha dato l'opportunità l'incontro pubblico di ieri, sabato, a Palazzo Pretorio, nella suggestiva Sala Trecentesca, che ho ammirato finalmente piena come non sempre avviene - purtroppo - in occasioni culturali.
Stavolta era così, merito senza dubbio del protagonista, personaggio affabile e accattivante, per il quale l'attributo "elegante", sembra calzare a pennello. Proprio come le sgargianti ma mai inopportune cravatte che esibisce - sembra ne abbia quasi 1.000, tutte realizzate a mano da un sapiente artigiano leccese (con cui condivide le stesse origini e la ventura di risiedere nella City).
E proprio nei meandri storico-geografici dell'Inghilterra più autentica, in una insolita veste di antropologo sociale, sembra accompagnarci nel suo libro Antonio Caprarica. Il suo non è un semplice ritorno al passato, ma è quasi un dilettarsi a dipingere un affresco ironico e realistico al termpo stesso, di quel divertente e intrigante ‘anacronismo’ che è l’aristocrazia britannica – come la definisce Roy Hattersley: storia, personaggi e aneddoti legati a non più di 1.200 famiglie (un decimo di quelle che popolano una città piccola come Gubbio) che oltreManica possiedono ancora i terreni di un terzo dell’isola e, seppur private dall'avvento di Blair di concreta influenza politica, continuano a esercitare fascino sui conterranei e sul Continente.
Fu proprio Blair, nel 1999, a ridimensionare la Camera dei Lord (limitando ad appena 60 il numero dei cosiddetti "Pari Ereditari", ovvero parlamentari per derivazione dinastica), lasciando la stragrande maggioranza dei componenti all'esclusiva nomina da parte del Primo Ministro ("norma che per altro non esclude, ma anzi forse incentiva, una sorta di cooptazione da parte dei premier di turno", come rilevato dallo stesso Caprarica).
Che l'aristocrazia british ispiri curiosità, quand'anche non spirito emulativo, la conferma il successo e la popolarità dell’evento matrimoniale del Principe William e Kate Middleton ("rappresentante di una classe che definiremmo ormai celebrities, le persone famose per il semplice fatto di esserlo").
Di questa anacronistica aristocrazia - che sa ancora tenere coltello e forchetta in un'epoca in cui si mangia con le mani - Caprarica illustra la storia e le singole vicende: i nobili in Inghilterra esercitano ancora un certo fascino perché sono considerati "una benedizione laddove altrove sono considerati un danno". Rappresentano la memoria di un’epoca d’oro, quella dell’impero e proprio in un momento di crisi come quello dei nostri giorni si torna a guardare ai fasti di un glorioso passato. “Di fronte a un futuro deludente gli inglesi si sono affrettati a girare la testa verso un passato rassicurante” scrive l'autore. Gli inglesi, e non solo, provano ammirazione per ciò che la nobiltà ha fatto in passato, è stata una vera classe dirigente che ha fatto di una piccola isola il più grande impero della storia.
Se oggi, uscendo dai nostri confini nazionali, si è obbligati a parlare almeno 4-5 parole di inglese, non è un caso. E' il frutto di una supremazia politica che si è tradotta, nei secoli, in supremazia culturale, o almeno linguistica. Gli States, in questo, c'entrano poco, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso...
“I patrizi inglesi resistono in una bolla temporale che sembra proteggerli dal volgare appiattimento della modernità - continua Caprarica - Sono gli unici nobili d’Europa a permetterselo. Percossa e ammaccata dalle rivoluzioni sociali del ‘900 la casta dei padroni della terra qui non ha perso come ovunque nel mondo il suo senso di identità. Si è piegata sotto il vento si è adattata ma alla fine è sopravvissuta e ha conservato larga parte delle sue colossali proprietà. Può essere magari un po’ a corto di contanti ma mai di servitù”.
Questo libro è destinato anche a far crollare uno dei più diffusi luoghi comuni sull'aristocrazia inglese: quello che sia stata sempre composta da personaggi irreprensibili, gente poco avvezza a licenze o trasgressioni, i classici personaggi definiti "stiff upper lip" (labbro superiore rigido), che non si emozionano, non si scompongono, praticamente poco più mobili di una "statua di cera". Questi integerrimi lord appartengono in realtà all'età Vittoriana (seconda metà '800, inizio '900). Prima, la classe sociale aristocrica inglese (che non definiamo "casta" solo per l'accezione profondamente negativa che oggi il termine ha assunto dalle nostre parti) era molto meno british di quanto l'aggettivo, non a caso legato allo stereotipo anglosassone tutto d'un pezzo, faccia intendere.
La storia è ben altra. Perchè molti protagonisti di questo libro somigliano piuttosto agli inglesi ribaldi dei secoli previttoriani, i cattivi delle tragedie di Shakespeare (attaccabrighe, ubriaconi, arruffoni, disonesti ecc.), veri e propri campioni di eccentricità, follia e dissipazione, lussuria e libertinaggio.
Se oggi come oggi i nobili inglesi sono un anacronismo che è molto divertente studiare, lo si deve soprattutto per la lucida e particolarissima follia, sempre assai snob, che li caratterzzava. Come quella che portò Lord Hamilton a procurarsi un sarcofago egiziano per la sua dimora eterna, salvo poi scoprire poco prima della morte che, essendo appartenuto a una donna egizia, non poteva contenere adeguatamente le sue spoglie mortali: e in punto di morte, la sua ultima frase fu: "Vi prego, piegatemi in due!".
O il giovane Duca di Norfolk, appena respinto da Oxford, a dichiarare: "Sono loro che perdono tanto, non certo io". O le gesta del Marchese danzante, al secolo Marchese di Anglesey, capace di dissipare in appena 8 anni, miliardi di sterline per una strampalata compagnia di ballo che aveva creato dal nulla e di cui ovviamente era "primadonna", circondandosi di vestiti, lacchè e futilità tra le più costose al mondo.
E se spesso gli esempi maschili parlavano di uomini innamorati di se stessi ancor più che di alcool e stravizi, gli esempi femminili parlavano spesso di nobili spregiudicate, specialmente di fronte alla scelta di chi portarsi tra le lenzuola. E così consapevoli del proprio ruolo aristocratico, da far dire ad una di esse: "Figlia mia, ti sei innamorata del pittore di corte? Prima sposa il nobile che ti è stato promesso, poi penserai al pittore...".
"Spesso le cose più interessanti sono le più folli", diceva Federico Fellini. E il viaggio che ci propone Antonio Caprarica nelle storie della nobiltà di Sua Maestà sono qualcosa più che un semplice viaggio nella fantasia di un mondo che ci appare distante.
Sono anche una felice perlustrazione di un universo che è stato capace di creare le basi (economiche, finanziarie ma anche culturali) del suo presente. A differenza dell'aristocrazia italica, ad esempio: "Mentre i nostri nobili giocavano a zecchinetta campando di una rendita che li avrebbe alla lunga abbandonati - ha spiegato nel corso dell'incontro eugubino, Caprarica - i nobili inglese facevano i "Don Giovanni", si dilettavano nella caccia alla volpe, nel football e nel cricket, ma intanto conquistavano il mondo. E sapevano tenerlo in pugno".
Una lezione che ha un qualcosa di straordinariamente attuale.
E che al fascino dell'eleganza (che come dice lo scrittore Coelho "non è qualcosa di superficiale bensì la maniera che l’uomo ha scoperto per onorare la vita") ha saputo abbinare l'estrema pragmaticità di chi ha saputo tradurre nella vita la parola "leadership".
Fattore P (pragmatismo) lo chiamano i Britannici. Quel fattore che a noi, purtroppo, ha spesso fatto difetto...
domenica 26 febbraio 2012
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