E’ stata una giornata infernale. Altro che formicolìo del lunedì sera. Borse, spread, rating, debito pubblico volano sulle montagne russe. Ma a manovrarle è una mano che non ha volto, non ha bandiera, non ha scrupoli.
E tutto questo mentre sto leggendo un libro per certi versi illuminante e… sconfortante. “Uscita di sicurezza” di Giulio Tremonti. Lo avrò ospite tra qualche giorno (giovedì 26 luglio) in diretta, su TRG. Prima o poi anche sul libro l’ex ministro spiegherà la sua uscita di sicurezza: spero di arrivarci, a quel capitolo, prima di giovedì (quando sarà nei nostri studi).
Perché finora a leggere la sua lucidissima e acuta analisi delle cause del disastro economico dell’Europa malmenata e sottomessa dall’avidità e l’ingordigia della speculazione, vien voglia di ritirare da fondi e conti correnti i propri (pochi) risparmi e cucirli alla vecchia maniera dentro il materasso ortopedico. Prima di guardarsi intorno in modo circospetto e sussurrare: “Almeno qui non potrete mai arrivare, bastardi…”.
Sarà per questa forma di repulsione della realtà che stasera per qualche minuto ha avuto la tentazione di non accendere neanche la tv. Facendo il verso a quel contadino al quale, quando moriva una vacca, bastava non guardare – lasciando il “lavoro sporco” di disfarsi del quadrupede al proprio figlio o al nipote - per illudersi che non fosse successo nulla. Poi il tg l’ho visto davvero, anche perché mi era comunque bastato navigare qualche minuto nei siti info nazionali e internazionali, o sbirciare nella valanga di tweet che ormai mi sommerge appena mi collego, per capire che giornata era stata.
Allora l’unico antidoto alla depressione pre-incarto era volgere lo sguardo, anche per pochi minuti, altrove. Cercando un diversivo. Un anestetico efficace, come lo chiamo io. L’unico, in queste ore, è tinto di rosso e risponde al nome di Ferrari.
Che gusto vederla trionfare proprio in terra di Germania, sotto gli occhi di chi non perde occasione per sbeffeggiare i vizi italiani – guardandosi bene dal riconoscerne virtù e potenzialità. Stavolta non c’entra l’energia esplosiva di Balotelli (pur scimmiottato da Alonso e dai meccanici durante l’inno, nel suo gesto da bronzo di Riace), non c’entrano le strategie tattiche di Prandelli.
Stavolta la batosta per i deutch è più pesante perché è meccanica, motoristica, tecnica, organizzativa. Insomma chiama in causa fattori nei quali la dea bendata (o il pallone di cuoio) c’entra poco, l’ingegneria, il know how, la tecnologia, molto di più. Lezione di superiorità tanto più grande in quanto chi l’ha portata a termine ha dominato dall’inizio alla fine, ha resistito agli arrembaggi altrui, ha placidamente amministrato la propria leadership e alla fine ha tagliato il traguardo davanti a tutti. Prova di supremazia d’altri tempi (proprio quelli di un tedesco, che per altro ancora non demorde), quando la Germania affermava che il merito dei successi del Cavallino non erano dell’autovettura. Ma di chi ne giostrava il volante.
Sarà così anche stavolta? Nel dubbio eleviamo sull’altare della gloria – per ora a metà, visto che siamo a metà campionato (10 gare su 20 disputate) – sia la vettura, sia lo staff tecnico e manageriale, che il pilota, che i suoi talenti li detiene, avendo già vinto due Mondiali con altra marca e in altra epoca.
Singolare – come ho twettato a caldo domenica pomeriggio – che un ex campione del mondo austriaco (Lauda) abbia intervistato sul palco, in un siparietto inedito per la F1, un pilota spagnolo vincitore alla guida di un’auto italiana (per altro, da quel che ho saputo, progettata da un greco). Uber alles! Mi è venuto da esclamare con un pizzico di ironia, mista a sereno compiacimento.
Con un elettrizzante valore aggiunto…
Quelle comunicazioni dai box al pilota, nel corso della gara, rigorosamente in lingua italiana (anziché l’inappuntabile e imperturbabile inglese esibito da tutti, indiani compresi). A spiazzare le spie degli altri box pronte ad ascoltare e riferire di conseguenza.
Non so se si tratti di una strategia da messaggio in codice o di un’accentuazione dell’italianità del successo. Ho notato che da un paio di Gp l’ingegner Andrea Stella, braccio destro di Alonso e suo fido consigliere, comunica con lui nella propria “lingua madre”, ovvero l’italiano, che è anche “lingua zia” (di primo grado) di Fernando l’asturiano, che in Italia guida da una vita (iniziò con la faentina Minardi) e dove ha sognato per una vita di tornare a primeggiare. Quei dispacci tecnici rivolti in un’imprevedibile idioma periferico (ormai l’italiano corretto non si parla più neanche in Italia) così estraneo ai fedeli del bon ton mitteleuropeo, creavano un singolare effetto di empatia: somigliavano ai messaggi di “Radio Londra” nel periodo dell’occupazione, resi celebri dal film “Il giorno più lungo” quando gli alleati ascoltavano la nota stazione radiofonica libera riferire frasi apparentemente insignificanti (“Domani è sereno, Giovanni ha dolore all’alluce, la mia mucca non ha fatto latte, non c’è tempo per leggere il giornale”) che in realtà contenevano messaggi cifrati. Era per fregare il nemico, per aggirare il controllo dei nazisti, per nascondersi dietro quelle frasi incomprensibili. Effetto (e forse anche beffa) che si è ripetuta per finalità molto meno cruente, nel paddock di Hockenheim, nel cuore della foresta nera di Germania.
La vittoria è ancora più bella. Perché è ancora più nostra, è italiana. Nella tradizione, nel nome (della Ferrari), nel simbolo, e ora anche nella lingua. E arriva in una settimana drammatica – purtroppo non sul piano sportivo – per il nostro Paese e per quel sud dell’Europa stretto e avvinghiato nei cingolati della speculazione (e abbandonato da chi quella speculazione potrebbe attenuare o addirittura vanificare, attraverso decisioni politiche, capaci di fare “scudo”).
Consoliamoci così, dirà qualcuno. Ma almeno abbiamo motivi per farlo. E per i prossimi Gp saranno gli altri – gli spocchiosi anglosassoni o i bofonchianti teutonici – a dover assoldare un interprete per capire “cosa diavolo stanno dicendo quei maledetti italiani!”.
Un ultimo poensiero è ancora di colore rosso. Ma stavolta riguarda uno svizzero. Non c’entrano le banche, né il cioccolato. Non c’entrano i tassi d’interesse e nemmeno la puntualità. Ma il tennis, da qualche anno vessillo simbolico dei successi sportivi di uno svizzero. Roger Federer, ovvero il tennis, designato per la terza Olimpiade consecutiva come portabandiera del proprio Paese, ha declinato l’invito: lascerà l’onore del rossocrociato al suo connazionale di doppio Stanislav Wawrinka. “L’ho già fatto due volte, ad Atene e Pechino, ora è giusto che a farlo sia un altro. E poi lui fu decisivo per vincere l’oro 4 anni fa…”.
Si può essere grandi in campo. Si può esserlo per talento, forza, energia. Ma si è indiscutibilmente unici quando la grandezza è sinonimo di sensibilità. Di generosità e altruismo, di signorilità e umiltà: doti che pochi, davvero pochi, sanno interpretare. E che rendono Federer davvero uno (se non l’unico) “special one”. Lui che vince in ogni superficie (ormai celebre la frase di Connors), lui che torna sul gradino più alto dopo anni difficili, lui che da tutti è riconosciuto come il più alto interprete di questa disciplina.
Ma la grandezza può essere anche e soprattutto normalità. Nei gesti, nelle scelte, nell’esempio. Da esaltare, anche con poche righe.
A maggior ragione oggi, dopo una giornata così catastrofica per la nostra economica: dove anche il solo “essere rimasti in piedi” fa sentire “giganti”.
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