"Che batosta! Che peccato!". Sono le due espressioni che forse, anche a distanza di qualche tempo, seguiranno la lettura negli anni del calcio, del risultato finale di questo Europeo 2012.
Sfido chiunque ad aver anche lontanamente immaginato un 4-0 per la Spagna, alla vigilia dell’atto conclusivo di Euro 2012.
Un risultato che ovviamente è “figlio”, non solo della supremazia tecnico-tattica delle "furie rosse" ma anche delle vicissitudini di gara, dell’inferiorità numerica, del crollo psico-fisico – da favola che si tramuta in tragedia – subito dagli Azzurri col passare dei minuti.
Un po’ come Icaro, la squadra di Prandelli ha superato se stessa, ha alzato l’asticella delle proprie potenzialità, si è avvicinata troppo al sole (la Spagna, che attualmente resta la squadra più forte dei due emisferi) e ha finito per sciogliersi con la cera e con le ali. Precipitando fragorosamente, con un tonfo che è anche eccessivo per i demeriti della nostra Nazionale.
Non meritavamo di finirla così quest’avventura e tanto si disquisirà sulle ultime scelte del CT, sulla mentalità con cui è stata affrontata questa gara, sulle oggettive difficoltà legate agli spostamenti logistici (in una settimana 3 partite ma soprattutto due viaggi in Ucraina, dal ritiro polacco), sulla qualità dei nostri avversari che forse – diciamolo spudoratamente – non si sono neanche “goduti” questo terzo trionfo di fila: perché vincere così’ non dà quella scarica di gioia e adrenalina che certamente gli 1-0 di 4 anni fa alla Germania e 2 anni fa all’Olanda avranno regalato.
Pecunia (sportiva) non olet, e dunque non credo che giocatori e (soprattutto) tifosi iberici se ne faranno un problema. Già li immagino scatenarsi nei prossimi giorni a Pamplona (sabato è il giorno del chupinazo)…
Che batosta, sì. Ma anche, che peccato!
Perché il calcio è scienza illeggibile.
La Spagna non aveva incantato in questo Europeo, solo con l’Irlanda si era “sfogata” (anche lì 4-0) ma più per svarioni dei greens del Trap che non per giocate proprie. Minimo sforzo per eliminare la Francia ai quarti, solo la lotteria dei rigori, e senza lode particolare, per liquidare il Portogallo in semifinale. Non senza buena suerte (palo esterno di Bruno Alves per i lusitani, palo interno e gol per Fabregas, il destino ci mette sempre del suo...).
Insomma un compitino svolto facile facile giusto per riportare a casa una finale che invece in casa azzurra aveva le sembianze del prodigio: perché la qualificazione del primo turno era stata sudatissima (anche per proprie defaillance offensive), perché i quarti erano finiti alla lotteria dei penalty, perché la semifinale si era conclusa con un batticuore allucinante. Tante energie nervose lasciate per strada, ma come nella favola di Pollicino, al momento di raccoglierle (per tornare a casa vittoriosi), qualcuno se l’era mangiate…
Squadra fiacca e poco reattiva in avvio, con alcune individualità ormai dalla spia rossa del fuel accesa: emblematica l’azione del vantaggio iberico, dove Chiellini (uno dei punti interrogativi della formazione iniziale) si è fatto scavalcare da Fabregas come un terzino di eccellenza regionale: evidentemente senza gamba e forza d’urto, che sono le prerogative dell’ariete difensivo juventino.
Le sconfitte servono a rialzarsi e ripartire. Questo il messaggio di ieri sera del capitano Buffon e che oggi ha sottolineato molto acutamente il Ct Prandelli (che dopo le esternazioni sul "peso" che meriterebbe la Nazionale avvalora a maggior ragione il mio post di sabato "Aut Caesar, aut nullus").
Eppure c’è sconfitta e sconfitta.
Paradossalmente questo 4-0 fa meno male di quanto accadde esattamente 12 anni fa a Rotterdam: quella finale Italia-Francia – vissuta dal vivo con due miei amici, dopo un viaggio straordinariamente esilarante quanto allucinante – fu ciò che di più assurdo e frastornante sia accaduto alla Nazionale azzurra nella sua storia.
Vincere fino al 93’, dopo una gara dominata, venire raggiunto nell’unico tiro in porta, finire ai supplementari e perdere per il golden gol di Trezeguet (una delle invenzioni più stupide del calcio, fortunatamente abolita dopo poco) è una pugnalata che fa molto più male di una litanìa come quella vissuta ieri a Kiev. Dove dopo mezz’ora già si era capita l’antifona…
E allora non c’è che da voltare pagina. Prendere per buono – anzi, direi per ottimo – questo secondo posto e guardare avanti.
Facendo tesoro non tanto e non solo degli errori sul campo, quanto di quelli che da anni si commettono dietro le scrivanie federali nella gestione del patrimonio Nazionale: un bene di tutti di cui però – come sottolineato giustamente dal CT – ci si accorge solo ogni due anni.
Se nel nostro campionato il 55% dei giocatori non è italiano, se alcuni talenti nostrani giocano all’estero (ma questo potrebbe anche essere valore aggiunto), se perfino le squadre giovanili (come visto a Gubbio nella Final eight di Primavera) sono zeppe di forestieri che mai indosseranno l’azzurro, ma che dal nostro calcio vengono “educati” e formati, c’è poco da dire o da fare.
Già è tanto - da questo punto di vista - un secondo posto europeo. In fondo le corazzate Brasile e Germania (per non parlare dell'Argentina o dell'Inghilterra) mancano all'appello della vittoria da molto più di noi (dopo il trionfo azzurro del 2006 ha vinto solo la Spagna...).
Godiamocelo allora questo "argento" senza rimpianti, magari rivedendoci ogni tanto le due partite che da sole resteranno nella memoria dei tifosi (con Inghilterra e Germania).
E che anche la serataccia di Kiev – come avvenuto per il 4-3 dell’Azteca 42 anni fa, non certo impallidito dal successivo 1-4 subìto col Brasile - non potrà certamente offuscare…
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