Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 19 luglio 2012

Dall'inutile attesa di Noa a quell'indimenticabile vis a vis con Renzo Arbore... quando lo stile marca distanze siderali...

La gente la puoi catalogare in diversi modi . Tra la caselle alternative di questo immenso schedario umorale e antropologico, una sorta di labirinto caratteriale senza filo di Arianna, ce ne sono due prototipi con cui spesso – chi fa il nostro mestiere – deve confrontarsi.
Da un lato chi si crede molto più di quel che sembra, dall'altro chi è semplicemente ciò che appare.
Talvolta il confine è labile, sottile, come quei fili d'acciaio che reggono mastodontici ponti: leggeri, invisibili collegamenti, che però tengono, robusti, tonnellate di ferro.
Ed è semplice, per un giornalista, decodificare il profilo dell'interlocutore di turno. Basta calcolare quanto tempo si fa attendere e in che modo “se la tira”.

Ripensavo a questa duplice categoria di vip (o presunti tali) l’altra sera, quando per circa un’ora e mezza ho atteso (invano) la cantante Noa per un’intervista che avevamo concordato con il suo (presunto) ufficio stampa. O forse chiamarlo così è un po’ troppo, dal momento che aveva le sembianze di una fanciulla bionda, prosperosa, nullafacente (credo anche nullapensante), florida nelle forme quanto algida nel savoir fair, arida nella comunicazione, irritante nel silenzio ingiustificato che ha riempito quei 90’ di inutile ambascia al Teatro Romano. Unica consolazione, un vento fresco e leggero ad accarezzare le pietre secolari del più importante anfiteatro romano del centro Italia (Roma esclusa, ovvio).

Non è la prima volta che mi accade (intendo, di aspettare). E ho imparato, a mie spese, a “etichettare” a mio modo, i personaggi che questo splendido mestiere mi ha dato la possibilità di avvicinare, semplicemente da questo prologo.
Poi – quando il tuo interlocutore è così educato da concederla l’intervista (fortunatamente mi è accaduto nella stragrande maggioranza dei casi) – sono i particolari a rivelarti la personalità di chi hai di fronte. L’autenticità del sorriso, la naturalezza dello sguardo, la serenità del gesto – quel porsi così immediato e senza fronzoli che non rifugge sufficienza, superficialità e insofferenza. Quando c’è tutto questo – e, dopo 20 anni di interviste, lo capisci anche e soprattutto dai dettagli – la tua diventa una piacevole conversazione. Che ti appaga e che in fondo gratifica anche chi ti sta di fronte.

D'altra parte non posso nascondermi dietro un’etichetta targata Rai o Mediaset (o la più fighetta La7): quindi, chi mi concede un’intervista lo fa per il gusto e il piacere di farlo. Almeno su questo non ho dubbi. Non ci sono secondi fini, né da una parte (la mia) né dall’altra.

Misano - autunno 2007
Morale, l’altra sera Noa l’intervista non l’ha concessa.
E fin qui nessun problema (sopravviveremo, mi dico in questi casi, ironicamente). Peccato che un pizzico di spirito (non dico di educazione ma di sensibilità per il lavoro altrui) avrebbe potuto suggerire di declinare l’invito una mezz’oretta prima. Se non altro per attenuare il disagio dell’estenuante attesa.
Quando un goffo portaborse – incaricato dell’improbo compito – si è avvicinato dandomi la ferale sentenza (“mi spiace ormai è tardi, e Noa deve salire sul palco”), ho pensato che la celebre cantante israeliana - famosa anche per le sue battaglie a favore della pace (credo anche quella dei sensi, dei suoi aspiranti intervistatori) aveva battuto persino il record di anticamera fissato 5 anni fa da Valentino Rossi – che ho aspettato per un’ora e un venti in un salottino dell'autodromo di Misano, ma che poi, braccato inesorabilmente, non ha potuto fare a meno di sottrarsi al mio microfono.
Ma questa è un’altra storia (che magari racconterò in un’altra occasione).

Tutto il preambolo per dire che questi pensieri sono riaffiorati oggi anche perché abbiamo programmato nel palinsesto di questa settimana – molto estivo, che in tv significa con molte repliche – l’intervista che realizzai ormai 4 anni fa a Foligno con Renzo Arbore. Tanto più attuale in quanto l’istrionico e irresistibile show man – forse il primo vero prototipo di one man show popolare, meglio identificabile come swing man – è stato protagonista anche quest'anno come direttore artistico di un’edizione memorabile di Umbria Jazz. Magari prima o poi lo "riaggancio" per un'altra intervista vis a vis.

Come quella dell'agosto 2008. Metti una saletta appartata di un albergo folignate. Giornata afosa, sono le 20.30, ma sembra primo pomeriggio: la stanza è fredda, rigida, in preda all'aria condizionata (che ti opprime almeno quanto il caldo appena fuori l'uscio dell'albergo).

L'intervista era fissata per le 19, spostata (mentre ero già in viaggio) alle 20, e quindi con una cortese telefonata della reception, alle 20.30. Un'orda di giovani studentesse straniere - lingua inglese - si accalca all'ingresso, ma solo perché deve scaricare i propri bagagli.
Il tempo di chiedermi che ci faccia tutta quella gente a Foligno (dove io non andrei a in vacanza con queste temperature) che il "mitico" sbuca dall'ascensore.
In mezzo a tutte quelle pulzelle si gira e si volta, con quel sorriso di sorpresa quasi a dire: "Siete qui tutte per me?", ma ignora che non è così.
Mi faccio avanti io, lo saluto e gli porgo la mano, presentandomi: mi guarda, mi squadra e sorride. Era stato bello confondersi tra quelle chiome bionde e rosseggianti, ma l'intervista doveva farla con me.

L'intervista all'Holiday Inn di Foligno
Lo faccio accomodare nella saletta, che nel frattempo - circa mezz'ora d'attesa - abbiamo allestito alla bell' e meglio con Elia (il tecnico di ripresa, oggi lavora con un service di Mediaset, e partirà a breve per gli Usa): siamo all'Holiday Inn ma quasi non si direbbe. Muri bianchi, un'aula da corso di formazione, piuttosto anonima e fredda - almeno quanto la sua temperatura. L'attesa è lunga e devo dire anche un po' più ansiosa del solito.
E' un po' di tempo che non sento l'adrenalina per un'intervista: saranno i 20 anni che già mi sono messo alle spalle, o forse lo "spessore" dei miei consueti interlocutori. O magari il fatto che Renzo Arbore l'ho sempre vissuto come fosse... uno di casa. E ci tengo a fare bella figura.
Il formicolìo che mi prende i polpastrelli è un segnale che conosco a memoria: è come una spia, mi dice "vai, è il momento. Non fare cazzate, non strafare, sìì te stesso. Non pensare chi è, concentrati sulle domande, e sii naturale. Niente salamelecchi, non fargli capire che per te è importante. Educazione ma non adulazione. Sono le regole per fare una buona intervista".

La prima cosa che mi impressiona di Renzo Arbore è il colore della pelle: rosso mattone, un fondotinta - probabilmente non evidente dal palco - ma un po' eccentrico per chi ti si siede a fianco. Non so che impressione gli faccia io, ma mi mette subito a mio agio: mi chiede chi sono, per chi lavoro, se preferisco fare l'intervista lunga e in più quella breve per il tg (è un professionista, sa che la maggior parte dei miei colleghi si vuole fare la "pappa pronta" senza perdere tempo a montare un testo con alcuni stralci dell'intervista. Per questo si sorprende quando gli dico: "No, lasci stare. Facciamo l'intervista che poi i brani per la news li prendo da solo").

Ci sediamo, due poltroncine, io posto di 3/4 rispetto alla telecamera che sta a pochi passi di fronte a lui. La sensazione più bella: non è tanto di vedere davanti a me Renzo Arbore, solo e disponibile per il mio microfono: è la risata che mi piazza non appena si accende la lucina. Professionismo puro, un po' di sana fiction, è vero. Ma sai quanto ti distende e ti aiuta quel sorriso? Come se stessimo parlando da ore, come se fossimo amici da una vita. Ci sa fare Renzo.

E l'intervista? Beh, quella va in onda nuovamente domani sera (venerdì). Posso solo dire che è spassosa ma anche profonda. L'ho montata alternandola con dei brani del concerto. Un lavoro direi "chirurgico": anche perchè alla fine della registrazione proprio Arbore mi ha chiesto una copia (ne avrà fatte migliaia di interviste, evidentemente le conserva tutte), ma poi ci tenevo perché ha allietato tante serate e tanti momenti che ho vissuto da vero cultore dell'"arboristeria" autentica.

E poi una curiosità: avevo preparato una serie di "domande scritte", ma, sembra incredibile, avevo lì il foglio, piegato, su quel tavolino. Abbiamo cominciato a parlare e mi sono scordato di aprirlo. Mi ero scritto una quindicina di punti che sono rimasti "chiusi". O meglio, la gran parte delle domande me le sono ricordate, ma la scaletta che mi ero fatto è saltata subito. Quando ha cominciato a fare da mattatore ho lasciato perdere. Mi son detto: è come quando guidi un cavallo di razza, in realtà è lui che ti dice a che ritmo andare. Devi solo tenere la briglia, tirare quando strettamente necessario e dare piccoli colpi se si tratta di cambiare direzione. Senza quasi farti accorgere.
E con Arbore - distante anni luce da tanti presunti vip capaci di sentirsi tali solo per l'inconfondibile "puzza sotto il naso" - è andata così...


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