Foto ricordo insieme alla delegazione coreana alla Sala Consiliare di Palazzo Pretorio |
Di questi tempi per parlar bene dell’Italia ce ne vuole.
L’ultimo che è riuscito nell’impresa è stato Cesare Prandelli. Le stesse evoluzioni diplomatico-politiche di Mario Monti, a Bruxelles, hanno avuto lo stesso effimero risultato delle prodezze balistiche dell’altro Mario, Balotelli: pochi giorni e subito si è tornati coi piedi, e con lo spread, per terra.
Si avverte addirittura l’impressione che l’effetto più devastante e incontrovertibile della crisi che segna la nostra mentalità sia proprio l’impossibilità (o incapacità o vera e propria “nolontà”) di vedere la luce in fondo al tunnel.
Tutto ciò che ci circonda affiora con una tonalità scura, difficile localizzare tracce di fiducia, arduo districarsi nelle perifrasi economico-finanziarie negative, tutta la nostra quotidianità sembra inesorabilmente condannata al segno meno. Come se dovesse essere solo il Pil l’unità di misura del nostro benessere.
Meno sorrisi, meno fiducia, meno speranze. Meno credito – che non è solo quello concesso dalle banche – e per molti, anche meno sogni.
Eppure. Eppure basterebbe poco per capire quante “garanzie reali” appartengano ancora al made in Italy, se si svolta appena l’angolo dell’Europa. Quante credenziali, quante potenzialità, quanto fascino susciti ancora il nostro Paese, nell’immaginario –tutt’altro che ipotetico – di decine di milioni di persone.
Mi è stato sufficiente trascorrere un piacevolissimo pranzo informale con un gruppo di turisti coreani, una ventina, che soggiornano a Gubbio nell’ambito di una (pregevole e meritoria) iniziativa dell’associazione lirica “Vissi d’arte, Vissi d’amore”, organizzata dall’inesauribile Massimo Capannelli e dal soprano coreano Cristina Park.
Saremo pure impantanati nella crisi più odiosa e insostenibile del dopoguerra, ma parlare con alcuni di questi (per altro facoltosi) forestieri rappresenta qualcosa più che una semplice iniezione di autostima. L’Italia è ancora oggi, nonostante tutto, una sorta di Eden terrestre per milioni di orientali, suggestionati dall’arte, dalla storia, dal patrimonio culturale – compresa la lirica, ovviamente – che appartiene al nostro dna e che in fondo è l’unico vero “tesoretto” che nessuno potrà né imitare né prosciugarci (se non la nostra incuria).
Alle prese con il mio very basic english... |
Stavano in Italia, ergo erano felici.
Il piacere stesso di pronunciare alcune parole nella nostra lingua – il più delle volte, legate alle strofe del melodramma (altro tesoro assolutamente sottovalutato dal nostro Paese ma formidabile chiave di diffusione e lettura culturale, unica e non riproducibile) – mi ha dato la sensazione netta che l’Italia sia da sola ancora oggi un brand. A dispetto della propria atavica sottovalutazione.
Dato che i primi a non rendersene conto sono proprio gli italiani, soprattutto quelli – e continuano ad essere tanti – che non hanno l’occasione, la voglia o l’opportunità di mettere la testa fuori dai propri confini.
Se proprio non si possono abolire le Province, che si faccia un decreto contro il provincialismo – mi è stato scritto qualche giorno fa. E l’Italia, di questa patologia, abbonda fin troppo.
“Siete seduti su una Ferrari ma non sapete ancora dov’è la chiave per metterla in moto” mi disse una volta un americano che avevo conosciuto estemporaneamente, in uno dei tanti “gemellaggi” figli dell’emigrazione che fu (e che oggi torna ad essere, non più con la valigia di cartone ma con il trolley).
Che è il concetto che più o meno ha espresso Gian Antonio Stella, una delle prime firme del Corsera. Ospite ad Assisi all’inaugurazione di Palazzo Bonacquisti, il giornalista ormai inevitabilmente associato alle sue inchieste illuminanti sulla “casta”, ha intonato un peana, accorato quanto malinconico, sul futuro dei beni culturali del nostro Paese: “L’unica vera miniera di cui disponiamo ma che sembriamo ignorare – ha dichiarato – senza considerare che il nostro futuro non può essere né l’industria né la manifattura, perché ci sono paesi di un mondo sconosciuto fino a qualche anno fa, che oggi sono in grado di produrre a costi minori e su scala imparagonabile alla nostra. Ciò che invece non potranno mai riprodurre è il patrimonio di arte, cultura e tradizioni che ci appartiene ma di cui non abbiamo più senso di appartenenza”.
Per un attimo, chiacchierando amabilmente con la delegazione coreana, insieme all’affabulante artista eugubino Giampietro Rampini – di cui ho potuto apprezzare una spiccata disinvoltura nello speak english – ho ripensato che nella giungla di tagli da spending review con cui il governo sta, giocoforza, scuotendo il nostro apparato burocratico, a farne le spese sarà anche l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, la cosiddetta “discoteca di Stato”, uno scrigno culturale fatto di oltre 500 mila brani inventariati e archiviati che costituiscono tutto lo scibile nazionale in materia di fono produzione.
Un colpo di spugna e si cancella tutto, come quando pigi distrattamente il tasto reset del tuo pc.
In Oriente – ma anche altrove – ci invidiano persino la musicalità della nostra cadenza linguistica (più di una volta mi è capitato all’estero di ricevere questo inatteso complimento, del tipo “voi italiani, quando parlate, sembra che stiate cantando”). Qui chiudiamo il presente e il futuro anche al meglio del nostro passato.
Una riflessione un po’ triste - suggeritami via facebook da un post di Judy Zenobi - ma che mantiene, conserva, lascia sopravvivere, una traccia di fiducia alla base.
Grazie anche ad un pranzo, non preventivato fino all’estemporaneo invito del giorno prima, in compagnia di un gruppo di sconosciuti che hanno avuto il merito e il pregio di farmi sentire un po’ orgoglioso.
Ma anche desideroso di condividere con altri questa speranza e questa necessità: di apprezzare il bello che ci circonda, di guardare al futuro con gli occhi di chi ancora oggi sa cogliere questo fascino. E ci aiuta a sentire un po’ meno grigio e un po’ più verde la nostra fantastica “aiuola”.
Casa nostra.
Nessun commento:
Posta un commento