Quando arrivi a Coverciano la sensazione è quella del college. Non sono mai stato in un college, intendiamoci.
Ma uno s’immagina quei luoghi un po’ appartati, discreti, immersi nel verde, con atmosfera serafica – ma non abbastanza da sentirsi francescana – dove la disciplina, il rigore, lo stile composto si mescolano al “misticismo” – in questo caso di taglio sportivo. Che è una sorta di “mitologica” galleria scandita da immagini in ordine sparso che rievocano il passato, più o meno recente, e appartengono ad una collettività tutta.
Il saluto romano di Meazza, l’urlo di Tardelli, il cappello tricolore sulla Coppa del Mondo a Berlino. Tre modi di salutare un trionfo.
Con alcune di queste icone sei cresciuto, con altre hai esultato in età matura. Osservandole da vicino, penso alla fortuna di averle "vissute". E che il calcio – tra miriadi di difetti, a cominciare da molti interpreti indegni, dentro e fuori dal campo – continua a regalarti bagliori emozionali che difficilmente in altri campi riesci ad assaggiare.
Era la quarta volta, lunedì scorso, che andavo a Coverciano (le prime due è stato per giocare il torneo “D’Aguanno” con la selezione giornalisti Ussi Umbria), per il IV seminario “Il calcio e chi lo racconta”, un’iniziativa dell’Ussi (Unione stampa sportiva) nazionale a cui ho volentieri aderito – partecipando con una nutrita delegazione umbra, capitanata dal presidentissimo Remo Gasperini - dopo la felice esperienza dell’autunno 2009. Allora il parterre degli ospiti del ciclo di incontri di formazione per giornalisti sportivi, contava su nomi come Fabio Capello (che dichiarò la celebre frase “il calcio in Italia è in mano agli ultrà”) o Pierluigi Collina - che ci guidò, con tanto di video, in una lezione di alcune “situazioni” tipiche arbitrali, mostrandoci come ormai oggi ci sono squadre che provano in allenamento schemi mirati a confondere le idee alla terna arbitrale (ad es: lasciando 3-4 giocatori in fuori gioco sui cross da calcio piazzato, salvo poi gli stessi rientrare prima del traversone e incrociarsi con altri compagni di squadra che vanno in penetrazione). E soprattutto eravamo in compagnia della Coppa del Mondo, che troneggiava a fianco del tavolo nell’auditorium del centro sportivo.
Stavolta la Coppa non c’era (e chissà se e quando la rivedremo in queste stanze), ma il programma era decisamente ricco, non solo in quantità: dal presidente dell’Inter, Massimo Moratti, al tecnico del Milan, Massimiliano Allegri, al responsabile del settore giovanile delle Nazionali, Arrigo Sacchi, al designatore arbitrale di A Braschi (affiancato dagli arbitri Tagliavento e Valeri), al responsabile degli allenatori Renzo Ulivieri, fino – dulcis in fundo – al presidente dell’Uefa, Michel Platini.
Per un giornalista sportivo, per giunta abituato ad altri interlocutori nell’”opera quotidiana”, praticamente è stato come tornare bambino e ritrovarsi in negozio di Playmobil. La rivelazione vi apparirà un po’ ingenua – visto che affiancavo fior di colleghi, avvezzi ad avere a che fare con questi personaggi. Ma è stato solo l’impatto immediato e istantaneo.
Giusto il tempo di ambientarsi, tra le gigantografie di Lippi e Bearzot, qualche fermo immagine anni ’30 dell’epopea di Pozzo, i flash di Italia-Argentina o Italia-Brasile al Mundial ’82 e i fotogrammi ingranditi dei rigori di Berlino. O le carrellate nei corridoi con tutte le squadre under 21 vincitrici del Campionato Europeo (coppa che non alziamo più dal 2004 e un chè ci sarà…).
Poi guardandomi intorno, entrando in confidenza con qualche collega, parlando a tu per tu con alcuni degli ospiti citati (in particolare Allegri, Tagliavento e Ulivieri) ho avuto la conferma che la realtà spesso è meno “reverenziale” di quanto ci immaginiamo – un atteggiamento che mi fa tornare in mente la sensazione che provai all’hotel Ergife (febbraio 2007), quando all’esame da giornalista professionista mi ritrovai al banco accanto (per motivi di ordine alfabetico) un autentico fuoriclasse del microfono come Massimo Marianella; non rivedendolo poi in sede di prove orali e vedendomi addirittura col punteggio finale più alto rispetto agli altri 700 partecipanti, ho tratto le mie somme. E mi sono sentito un po’ più orgoglioso ma anche un po’ più Coliandro.
Gli interventi, sotto forma di relazioni piuttosto informali, da parte degli ospiti – davanti ad una platea di neanche un centinaio di giornalisti provenienti dall’Ussi di tutta Italia – toccavano tematiche diverse, ma sempre attuali e degne di interesse.
Il Presidente Massimo Moratti ha parlato della sua Inter plurivittoriosa: confesso che non ho simpatia per il personaggio. Un sentimento certamente figlio della mia “juventinità” (che amo definire, da tifoso di Salò – in attesa di un “risarcimento” morale e di scudetti sottratti). Ma se Moratti “mi sta qui” – per il suo atteggiamento da nobiluomo signorile predestinato al successo, quasi che il fato, il calcio italiano, il mondo intero gli debbano sempre qualcosa – chi non sopporto affatto sono i (tanti) colleghi più o meno altisonanti (e spesso autoreferenziali) che si sono esibiti in un concorso sulla domanda-zerbino dell’anno. Eviterò di fare nomi ma sentire quesiti del tipo: “Che sensazione ha avuto quando si è scoperto che l’Inter non vinceva perché qualcuno barava?”, ti fa pensare a cosa serva il nostro mestiere se si scambia l’arte dell’intervista con l’assist a porta vuota.
Non è un caso che l’unica domanda che abbia fatto storcere il naso al petroliere meneghino sia arrivata dal drappello di giornalisti eugubino-juventino – composto dal sottoscritto e dal collega Massimo Boccucci: domanda legittima (“cosa pensa del fatto che mentre l’Inter vince tutto, la Nazionale azzurra è in caduta libera, dalle giovanili alla squadra maggiore? E il 2006 con Calciopoli non ha inciso comunque sull’inizio dei trionfi dell’Inter?”). Moratti prima ha chiesto se era un nostro pensiero o una domanda giornalistica (ti pareva), poi ha replicato con l’aria di chi ha appena assaggiato uno yogurt scaduto: “Calciopoli è stato qualcosa di volgare. E ha dimostrato il perché l’Inter non vinceva prima. Le vittorie dopo il 2006 hanno confermato che c’era un sistema preordinato a non farci vincere”. (il giorno dopo questa frase campeggiava su tutti i quotidiani e siti internet sportivi nazionali).
Un’esibizione - a mio avviso - di presunzione allo stato cristallino perché se davvero signorili si fosse, si avrebbe la creanza di dire che è ancora in corso un procedimento ordinario (a Napoli) che potrebbe anche dichiarare inesistente la cosiddetta “cupola di Moggi”, dimostrare che la retrocessione della Juventus e i due scudetti sottratti sono stati un provvedimento “emotivo ed esageratamente impulsivo” (per i tempi che la giustizia dovrebbe comunque richiedere) figlio del clima giacobino che attorniava la Signora. E un pizzico di umiltà dovrebbe far riconoscere che dopo il 2006 gli errori arbitrali sono continuati a bizzeffe, solo che l’Inter ne è stata tra le principali beneficiarie (almeno un paio di scudetti, quelli persi nel rush finale dalla Roma, 2008 e 2010, ne sono stati condizionati).
Signori si nasce, e non basta tirare fuori petrolio da una piattaforma, o calibrare a dovere l’accento milanese, per diventarlo.
C’è una frase che mi è piaciuta – una sola – pronunciata dal presidente nerazzurro. L’ho segnata – come ho fatto con altre di altri ospiti, che mi hanno colpito: “L’Inter è come una bellissima donna di cui non potrai mai sentirti proprietario, ma sai di aver avuto la fortuna di amare”. Chapeau. Ma solo su questo, presidente.
Massimiliano Allegri sembra invece un vecchio compagno di classe. Che rivedi dopo 20 anni, ti racconta delle bischerate in gita, o dei flirt giovanili con la bionda del liceo. E’ leggero, scanzonato, quasi dissacrante il suo racconto di allenatore che in cinque anni dalla Lega Pro (allenava l’Aglianese contro il nostro Gubbio solo nel 2004) approda a Milanello. L’incarnazione di come ancora, fortunatamente, esista (e serva a qualcosa) una “gavetta” anche nel calcio di oggi.
E dire che il personaggio non dà l’idea, col suo passato da giocatore sopraffino nei piedi quanto imprevedibile nei modi, di poter “gestire” uno spogliatoio. Così non è invece. Stando ai risultati. Ma anche a quello che ti dice. O meglio, che quasi sembra confidarti. “Venire dal basso può sempre tornarti utile – confessa – Ho allenato ad Agliana, a Grosseto, a Sassuolo, a Cagliari, esperienze diverse, piazze diverse, presidenti diversi, ma tutti posti dove ho messo a frutto l’esperienza da calciatore – nei rapporti dello spogliatoio – e i dettami tecnico-tattici appresi negli anni. Ho imparato che i grandi personaggi devi ascoltarli sempre: anche quando dicono cose che sembrano banali, quelle frasi contengono qualcosa di più nascosto. Bisogna capire cos’hanno in mente”. E poi…
L’impatto con Milanello? – rivela – "Facevo le mie battute da livornese, i primi giorni. Poi quando vedevo che tutti sgranavano gli occhi, ho capito che forse non era il caso… Adesso la battuta la faccio, ma quando prendiamo un caffè dopo la conferenza stampa”.
La cosa più difficile per ora? “Gestire la pressione – risponde – Chiesi un giorno ad Ancelotti come si gestivano campioni importanti: mi ha risposto, sii te stesso. E allora ho cominciato a non dare spiegazioni a chi restava fuori: perché da giocatore ero il primo a non chiederle”. E poi l’aneddoto da giocatore: “Un giorno dissi al mio allenatore che voleva spiegarmi la decisione di lasciarmi in panchina: “Non deve dirmi nulla, se no tanto mi prende per il culo…”.
Ma dove ho scoperto un Allegri straordinariamente nitido (molto più che in questa foto, ma il collega Paladino ha fatto sicuramente del suo meglio...), profondo – non che non lo sembri – e di acutezza e intelligenza rare, è nella risposta alla mia domanda: lei ha giocato a Perugia, una piazza che ha scoperto e dato giocatori anche alla Nazionale campione del mondo (Materazzi, Grosso) pescandoli in serie C, dove ha poi allenato negli annis scorsi.
Non pensa che il nostro calcio conosca poco se stesso e le categorie minori, e sia un po’ troppo esterofilo?
“Secondo me il problema è un altro – ha replicato – dobbiamo cambiare modo di allenare i giovani. Oggi si fa tattica, diagonali, zona, fuorigioco, addirittura nelle categorie allievi. Un ragazzino sta un’ora a girare per il campo, senza toccare la palla. Io mi stancherei a fare ‘ste cose a 15 anni. Noi siamo cresciuti giocando 6 ore al giorno nei cortili o nei vicoli, e poi 3 giorni a settimana si andava a fare l’allenamento e affinare lo schieramento in campo. Ma la tecnica la imparavi nei rimbalzi fasulli di un vicolo, o sulla sabbia. Il fuoriclasse nasceva lì, perché sapeva adattarsi alle situazioni peggiori. Oggi i ragazzi stanno ore davanti alla playstation e poi vanno a fare tattica come avessero in mano ancora il joystick. Fosse per me abolirei la zona fino a 16 anni – frase lapidaria, tra qualche risatina del pubblico, perché in prima fila troneggiava niente meno che Arrigo Sacchi in attesa di parlare nel pomeriggio. E per sdrammatizzare, un po’ tra l’ingenuo e il provocatorio, Allegri gli fa: “Non so se il mister è d’accordo…” (e Sacchi, fuori microfono, diplomaticamente bugiardo “Io sono sempre d’accordo su tutto”).
Gustoso infine anche l’aneddoto su Galeone, uno maestro dalla panchina pescarese e perugina, ma dal quale Allegri non ha certo ripreso la spregiudicatezza (talvolta sconfinante in sprovvedutezza) tattica: “Ero arrivato a Pescara dal Pavia. Il mister il primo giorno mi vide e mi disse: se vuoi giocare in B o in A devi imparare a correre. Altrimenti la palla non la prenderai mai”.
Quanti talenti non hanno seguito un consiglio come questo, apparentemente banale. E hanno puntato solo sulla qualità dei loro piedi? E quanti talenti sono stati guidati male, esclusi, poco valorizzati, perché non inseriti in un quadro tattico? E quanti giovani si stanno perdendo davanti ad una playstation, pensando di poter fare cose per le quali non si allenano, ma che coltivano solo in teoria?
Tutte domande che la chiacchierata con Allegri lascia malinconicamente aperte (per il nostro calcio). Anche se illuminate da irriverente semplicità e innocente schiettezza.
(continua)
domenica 30 gennaio 2011
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