(continua da I parte - 30.1.11)
Ho sempre visto Arrigo Sacchi un po’ sergente un po’ ayatollah. Per la sua ortodossia tattica ma anche per la ferrea disciplina che chiedeva ai giocatori. Mentale prima ancora che comportamentale.
E’ proprio vero che i suoi successi sono soprattutto in rossonero. La sua parentesi azzurra non è stata altrettanto fortunata. E anche la finale, persa solo ai rigori, contro il Brasile più “scarso” degli ultimi 30 anni, nel ’94, non ha lasciato impronte neanche a Coverciano. Le gigantografie che agghindano i corridoi sono solo quelle di Spagna 82 e Germania 2006. Non c’è traccia di quel Mondiale a stelle e strisce che, in fondo, potevamo anche vincere, così come poteva vederci rientrare già dopo 3 gare (passammo il turno come terzi ripescati, con il regolamento di oggi saremmo tornati a casa). Per non parlare dell’effetto “cul de Sac” che tradotto in Usa si legge Roberto Baggio: il suo diagonale al 90’ contro i nigeriani ci fece scendere dall’aereo, i tifosi riposero gli ortaggi e ritirarono fuori la bandiera, il Codino più celebre ci trascinò in finale – giocata in modo assurdo alle 12 ora locale, con 35 gradi e 80% di umidità, neanche fosse Giochi senza Frontiere con la coppia Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi a scandire “un, deux, trois”.
Il mio ricordo personale di Sacchi è vederlo uscire mestamente dal “Curi” (ero a bordo campo, grazie all’intercessione degli Sbandieratori di Gubbio che si erano esibiti nell’intervallo). Un intero stadio lo mandava a quel paese, dopo un anonimo 1-0 sulla Georgia (mi sembra) nel ’96, gol di Ravanelli. Aveva l’Italia contro. Era uscito al primo turno da Euro 2006 in Inghilterra per le proprie “fisime” tattiche, per la cieca e ottusa insistenza a prediligere il modulo rispetto ai giocatori. Si era scavato la fossa con le sue stesse teorie. E aveva un intero Paese che lo mandava al diavolo (poi c’andò davvero… nel senso che tornò di lì a pochi giorni ad allenare il Milan. Quella di Perugia resta l’ultima panchina azzurra).
Che Sacchi ne abbia masticato di calcio, non l’ho scoperto a Coverciano. Quello che ho scoperto (insieme ai colleghi dell'Ussi Umbria - nella foto durante i lavori all'auditorium di Coverciano) è un Sacchi leggermente diverso, direi più al passo con i tempi. Difende sempre i propri dogmi (“i solisti non hanno mai fatto una buona orchestra, né una buona musica”), ma sembra più sfumato, ha ammorbidito gli spigoli. Ci spiega che nel decennio 1989-1999 l’Italia e i club italiani hanno raccolto i frutti del cambiamento di mentalità: un secondo e un terzo posto ai Mondiali (entrambi “bruciati” dai penalty), 3 titoli under 21, uno o addirittura due club vittoriosi ogni anno nelle competizioni europee (con il record del 1990 in cui tutte tre le Coppe finirono a Milan, Samp e Juve). Oggi siamo la “pecora nera” del calcio europeo. Perché?
Manca la qualità. Troppi stranieri. Troppa approssimazione nella preparazione dei giovani (“il corso per allenatore dura un mese – spiega Sacchi – Un tempo durava un intero anno”).
Ripartire da zero non è facile ma forse è l’unica terapia. Ma non è solo una questione di preparazione fisica o tattica: “Il calcio non nasce dai piedi ma dalla mente. I piedi non fanno la categoria. La testa fa la categoria – una delle sue frasi che più mi colpiscono, quasi fosse un gonzo con la veste arancione – E la preparazione mentale nasce dalle esperienze giovanili. Oggi non investiamo abbastanza nei settori giovanili. Ma a questo risultato devono contribuire tutti, stampa compresa".
Sapete qual è la critica che mi faceva la stampa a Madrid? Che giocavano pochi spagnoli e pochi giovani… Avete mai letto parole simili in un quotidiano italiano?”.
Interessante l’esempio della Francia, di cui ci parla Cristian Damiano oggi responsabile del settore giovanile della Roma. Dall’inizio degli anni Ottanta sono nati Centri di Formazione giovanile – una sorta di collegi – aperti in tutto il Paese, ai migliori talenti giovanili del calcio transalpino. Serbatoi neutri cui attingono le società francesi ma anche estere, dai quali è nata anche la generazione che poi ha portato a Parigi la Coppa del Mondo del ’98 e l’Europeo “maledetto” del 2000 (vinto contro gli azzurri e sofferto dal vivo).
L’Italia ha la forza e le risorse per fare tutto questo? Punto di domanda. La speranza è che qualcosa di simile facciano almeno le società più lungimiranti. Che sui giovani investono. Perché se una volta, come dice Allegri, i talenti nascevano per strada, oggi per strada non si gioca più, i talenti vanno scoperti “in laboratorio” (ovvero, nei campi verdi) ricordando un vecchio assunto che Mino Favini, storico talent scout dell’Atalanta (fucina di decine di campioni poi esplosi in tante squadre d’elite, l’ultimo esempio Pazzini) ci rispolvera in modo sapiente: “Nel calcio molti giocano, pochi vedono, pochissimi prevedono. E sono questi i fuoriclasse”.
C’è anche spazio per la lezione arbitrale: il parterre è notevole con il designatore Stefano Braschi, e gli arbitri Paolo Tagliavento (nella foto - ternano, con cui scambio piacevolmente qualche battuta prima del seminario) e Paolo Valeri di Roma.
Meno metodici e maniacali di Collina, ci spiegano soprattutto che l’arbitro non fa le regole, le applica. Le regole sono stabilite da un International Board composto da 8 membri (che secondo me, e lo dico pubblicamente anche a loro, “non hanno mai giocato a calcio, “altrimenti non si punirebbe nello stesso modo con il giallo l’esultanza con lo streap tease e un’entrata fallosa da dietro”). La novità maggiore quest’anno è che il quarto uomo diventa arbitro effettivo come gli altri, può segnalare situazioni, può incidere sulla partita. “Può anche vedere un’azione in video” chiediamo noi, anche se – per diplomazia – Braschi rifiuta l’ipotesi della moviola in campo. E si culla il miglioramento della percentuale di errori (4%) nelle prime 20 giornate di A contro il 6% dell’anno scorso (poi bisognerebbe vedere anche la qualità di questi errori, ma questa è un’altra storia…).
La frase che mi colpisce di Braschi invece è un’altra: “Ho un figlio e non mi dispiacerebbe che facesse l’arbitro. Ma non per arrivare in serie A ma perché a 15 anni, quando sei solo contro 22 persone in trans agonistica, devi prendere delle decisioni. Ti assumi una responsabilità. Non so quante attività quotidiane oggi riescano a avere la stessa forza formativa ed educativa per un giovane…”.
(continua)
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