Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

sabato 14 maggio 2011

La Vigilia del 15 maggio... immagini, suoni e profumi dell'attesa...

Il 14 maggio. Ovvero, la vigilia della Festa. Immagini, suoni, profumi segnano una giornata che per eccellenza è affidata all’emozione più intensa per un ceraiolo: l’attesa.

Una giornata in cui si ripercorre passo a passo, anche nella routine quotidiana, quello che accadrà il giorno dopo. Che poi routine quotidiana non è, neppure quella del 14: perché tutto ruota intorno all’attesa, intorno al giorno seguente, intorno ai preparativi. Non si parla più di mute o di percorso – questioni ormai definite da giorni. E’ il carosello di sensazioni, brividi e sospiri che si mescola attraverso lo sguardo di piccoli particolari. Che presi per sé, sembrerebbero insignificanti. Ma quel giorno, tra ricordi, aspettative e un po’ d’ansia, ti proiettano inevitabilmente alla Festa

Camminando per strada, lungo il Corso, compaiono le prime scalette: oggetti anonimi negli altri giorni dell’anno, che il 14 maggio troviamo incatenati, con tanto di lucchetto, a inferriate o segnali stradali. Quasi a disegnare, come nella fiaba di Pollicino, un cammino, un ritorno al giorno prediletto. Non stanno lì per caso. E neanche per molto.
Su quelle scalette – salite e discese magari per riporre le valigie dopo una vacanza, per cambiare una lampadina fulminata o per il fatidico cambio di stagione negli armadi di casa – il giorno dopo saranno due, tre o forse perfino quattro le persone che, magari imbracciando una macchina fotografica o una camera, aspetteranno la corsa. E il momento del passaggio dei Ceri.

Non stanno lì per caso, e soprattutto non staranno più di 24 ore.
Vederle è tutt’uno col pensare a quanto poco tempo quelli “aggeggi” metallici sosteranno incorporati e quasi “fusi” al percorso dei Ceri. Quasi ne fossero ormai parte integrante. Quasi a ricordarci – come se ce ne fosse bisogno - quanto poco disti il 15 maggio.

Ad una scaletta come tante, è legato un aneddoto indimenticabile, qualche anno fa: durante la mattina avevo notato una di queste “presenze” insolitamente assicurata al pennone di Piazza Grande. Era ancora la sfilata dei santi, dunque mancavano un paio d’ore al grande momento, e la piazza era semivuota. Per un attimo mi sono chiesto se chi avesse legato quella scaletta proprio lì, fosse cosciente del rischio cui andava incontro.
Due ore dopo, uscendo dalla piazza dopo l’alzata, ho rivisto quella scala: completamente attorcigliata al pennone, quasi fosse pongo o creta, modellata per abbracciare alla base il gigantesco gonfalone della città. La folla straboccante e asfissiante ne aveva perfino deformato le fattezze. Non ne rimaneva che un groviglio di ferro, improbabile da riutilizzare ed estraibile, forse, solo con l’ausilio dei vigili del fuoco.

Non sono mai salito, per fortuna, in una di queste scalette: ancora la “vita vissuta” di ceraiolo mi porta ad essere partecipe diretto della corsa. Ma non credo che mai ci salirò. Chi ha preso il cero, non salirà mai su una scaletta per “vedere meglio la corsa”. Continuerà, finchè le gambe lo consentiranno, a viverla per strada. Aspetterà vicino alla muta, accanto ai ceraioli, magari nello stesso punto dove qualche anno prima si sospirava, nel pallore del viso, nella pesantezza delle palpebre, tra sbadigli di agitazione e abbracci d’incoraggiamento, con le mani, ridotte a temperatura glaciale, che si stringono e si sfregano, neanche fossimo in un freezer. E i battiti cardiaci, che in un qualsiasi altro giorno dell’anno, consiglierebbero un day hospital.
Non sono mai salito, non vi salirò mai. Ma l’immagine di queste scalette è così tanto abituale, che non potrei farne a meno.

Passeggiando tra strade familiari e vicoli più desueti, si avverte poi, forte e nitido, il profumo dei preparativi: intorno alle Sale degli Arconi è il tradizionale baccalà alla ceraiola a dominare la scena. Un aroma inconfondibile, che sembra preannunciare l’arrivo della Festa. L’assaggio è tradizione, ma lo è forse di più assaporare quel profumo che, misto agli odori dei fondaci e alle muffe di quelle mura – impregnate di storia, vissuto e passione – regala ad una semplice passeggiata un gusto sensazionale. E che riconosceresti anche disperso in una casba magrebina.

Spiccano le teglie capienti, ancora lucide e pronte ad ospitare la succulenta pietanza; le mani ruvide ma paterne di sapienti muratori, che per pochi giorni all’anno vestono i panni di improbabili chef, trasformando la cazzuola (non a caso chiamata “cucchiara” da queste parti) in cucchiaio; le tavole imbandite e ancora vuote, il cui silenzio durerà per poco e sarà travolto dal massificante culto dell’assaggio.

La taverne delle famiglie ceraiole, come le tante tavernette private disseminate tra i vicoli, emettono a loro volta umori che esalano il senso dell’attesa: “crescia” e insaccati di ogni specie, fave e formaggio, ma anche alicette o magro. E ovviamente un vino superbo a corollario di tutto.

In fondo la giornata di vigilia serve anche a questo: gustare un piatto fedele ad una tradizione consolidata. Seduti e in attesa. Il giorno dopo, sapori e condimenti si mescoleranno con incoerenze inimmaginabili nel resto dell’anno: dolce e salato si alterneranno dalle prime luci dell’alba, con la sveglia e i primi buffet dei capodieci, dalla colazione negli arconi, fino all’itinerante mostra dove ogni tappa, ogni omaggio, ogni applauso, si confonde con un salume diverso, con dolci e vini di ogni colore e qualità, accenni di arrosto e mani unte, brindisi fugaci e urla. Quasi a dover riempire, in modo refrattario, il tempo e soprattutto lo stomaco, che di lì a poco finirà per chiudersi.
Da solo. Anche lui in attesa. Che la corsa, e la voragine di emozioni connesse, si consumino.

Il suono della vigilia è invece un brusìo. Leggero e silenzioso. Impercettibile. Ma inconfondibile. Procede lento tra il vociare dei vicoli, le piazzette che si animano, le taverne che si accendono. Riconosci quel brusìo tra migliaia di decibel. Perché sarà quello che ti accompagnerà, dentro, nel momento più difficile e appassionante: quello della spallata. E’ il brusìo che precede il rintocco del Campanone, il “doppio” in Piazza Grande. Che ormai, anche il 14 maggio, vede debordare ogni centimetro della propria fisicità: il suono prodotto da quei giganti in maglia rossa, piccoli, lontani e impavidi, arrampicati sulla torretta, le cui movenze hanno l’eleganza di un etoile della Scala. E poi la voce del Campanone: entra nelle orecchie del forestiero con la potenza della sorpresa. Sfonda il cuore di un eugubino con l’intensità di un abbraccio. Di un ritrovarsi. Dopo un anno. Il Campanone, la sera del 14 maggio, non ha un suono qualsiasi. Lo diceva anche Lorenzo Belardi, indimenticato “Piccione”, per anni maestro dei Campanari.

E non hanno lo stesso fascino neppure le note di “Tazzillari”, che quasi a raccogliere un testimone emozionale, echeggiano di lì a poco in una sfilata confusa e spensierata. Sono note di attesa, anche queste. Un assaggio, anche questo, del giorno che ci aspetta.
E per la strada, in coda alla banda, tra “Giove” e “Fabrizia”, tra abbracci fraterni e ritornelli immortali, riappare una scaletta da un angolo, riaffiora il profumo di pietanze familiari. La vigilia diventa inebriante.
Manca davvero poco…

GMA


Da inserto "Speciale Festa dei Ceri" de "Il Giornale dell'Umbria" - 14.5.2011

1 commento:

  1. Ancora commenti da fb:

    Francesca Diana - che darei per essere lì.....

    Pierangelo Belbello -
    L'accurata descrizione da la percezione della sensazione che si prova stando li!!!!
    ....anche se sono solo 7 anni che vivo in questa splendida citta' ... ...un brivido sale..... !!!!!!!

    Matteo Fumanti -
    La cosa stupefacente di questo post è che non c'è una sola riga che non sia condivisibile da un ceraiolo.. Buona Festa dei Ceri Giacomo!

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