Giacomo Marinelli Andreoli:
giornalista professionista, direttore di Umbria TV, scrittore a tempo perso (ma mai perduto), aspirante blogger (dipende anche da voi…)
Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.
L'auditorium dell'ITI "Cassata" gremito
per "Guida la vita" - foto Photo Studio
“E’ un’iniziativa di straordinario valore. Mi auguro sinceramente che possa essere estesa almeno a livello provinciale. Perché tanti ragazzi, tanti 18enni della nostra regione, possano esprimersi attraverso la creatività di un video, di una composizione, di uno scritto, su un tema di grande attualità e profondità: il senso della vita da apprezzare anche e soprattutto quando ci si mette alla guida”.
Parole non di circostanza, parole sentite e cariche di prospettive, quelle dell’assessore provinciale con delega alla Sicurezza stradale, Luciano Della Vecchia, tra gli ospiti istituzionali della quarta edizione del concorso “Guida la vita – Il senso della vita”, organizzato dall’associazione El.Ba. e aperto agli studenti delle IV classi superiori degli istituti eugubini. Video, poesie, racconti, disegni: ogni forma di comunicazione è utile per inquadrare, descrivere e narrare il tema del concorso, ovvero il senso della vita come rispetto di quelle norme che rappresentano più prosaicamente la sicurezza stradale.
A presentare, insieme a me, la presidente dell' El. Ba.
Elisabetta Bedini e la psicologa Cinzia Rogo.
A sinistra Luigi Digitale (El.Ba.)
E questa quarta edizione ha rappresentato in effetti un deciso salto di qualità rispetto agli anni precedenti, per la qualità dei prodotti presentati e della partecipazione dei ragazzi (in tutto 9 classi e 2 singoli in “gara”). Lavoro non facile per la commissione, di cui faccio parte, considerando che a differenza degli anni scorsi, potevano essere indistintamente almeno 4 i lavori meritevoli del primo premio. Qualcuno ha vinto, altri sono rimasti fuori, per questioni di inezie (e mi è dispiaciuto leggere lo scoramento di alcune ragazze del IV finito fuori dal podio, costretto come sono stato a dare spiegazioni di un voto che in fondo non era solo mio ma di una commissione di 9 membri, assolutamente al di fuori di ogni condizionamento).
La IV B Liceo Classi festeggia... ma gli applausi
vanno anche a tutte le altre scolaresche - foto Photo Studio
Alla fine ad essere premiati sono stati il racconto di Sara Asslani per la categoria singoli (“La vita è vita, difendila”) e il video del IV B Liceo Classico “Mazzatinti” con un filmato giocato attraverso la corsa allo sballo da parte dei giovani, con continue tentazioni che circondano il ragazzo nel momento in cui il divertimento e la voglia di evadere prende il sopravvento: una clip di poco più di 2’ che viaggia attraverso una doppia dimensione, la realtà “reale” e quella virtuale, ben distinte attraverso la scelta del colore e del bianco e nero, e il finale con la rappresentazione della tragedia in agguato, dalla quale sfuggire con la consapevolezza che anche la serata più balorda può concludersi bene: semplicemente lasciando che a guidare sia un proprio amico che lo sballo ha preferito lasciarlo per un’altra occasione.
Ma una citazione speciale meritano anche gli altri video realizzati: quelli finiti sul podio, al secondo posto (IV A Liceo Classico) con un’originale raffigurazione di una ragazza, sempre vittima e artefice del proprio “sballo” alcolico, che immagina uno dopo l’altro, una serie di supereroi che alla guida della sua auto commettono una serie di infrazioni (fumo, alcool, cellulare, trucco) e finiscono tutti puntualmente “impalati” nell’incidente di turno (emblematica la frase finale “Non ci riescono i supereroi… figurati tu!”.
E il terzo classificato (IV Igea ITC "Gattapone") che sul piano della tecnica di montaggio e del doppio binario realtà-fantasia è certamente il migliore, ma che ha pagato forse la non eccezionale originalità del tema (videogioco-realtà) già utilizzato in passato. Come anche il quarto dei video classificati (IV A Liceo Pedagogico) che ha scelto la danza (non a caso, la passione di Elisabetta Barbetti, cui è intitolata l’associazione organizzatrice) come leit motiv trainante.
Alla fine l’applauso collettivo ha chiuso la felice giornata, nella quale si sono distinte anche le parole di sincero elogio da parte del presidente dell’Aci, Ruggero Campi, che ha confessato di essersi anche commosso in alcuni passaggi dei video trasmessi, tanta la partecipazione forte e diretta che le creazioni dei ragazzi hanno saputo suscitare.
Un grazie va rivolto a tutti i ragazzi che hanno dato se stessi per questo concorso: un contributo importante per una causa nobile e meritoria. E per un problema che purtroppo tocca, direttamente o indirettamente, tutti.
La vera vittoria non sta nel ritirare un diploma con su scritto “1° premio” (un corso di guida sicura all’autodromo di Vallelunga): ma nell’arricchire il cammino di consapevolezza e di sensibilità civica dei ragazzi (e perché no, anche dei loro genitori) sull’importanza del rispetto delle norme del codice, sulla responsabilità del mettersi alla guida senza alterazioni, sulla necessità di rifuggire qualsiasi forma di abuso per rispettare se stessi e gli altri.
“Mi auguro che un giorno non ci sia bisogno più di questo assessorato – ha ironicamente ma appassionatamente affermato l’assessore Della Vecchia – questo dipende da tutti noi. Quando non ci sarà più l’assessorato alla sicurezza stradale, vuol dire che avremo vinto questa nostra battaglia di educazione civica”.
E soprattutto – aggiungo io – di vita...
Il video vincitore del concorso "Guida la vita" 2012 - IV B Liceo Classico "Mazzatinti"
Lo scorcio della Basilica di Assisi, visto dal tratto
finale del Sentiero... gli ultimi chilometri...
Percorrere il Sentiero Francescano. Mi ero ripromesso da un pezzo di farlo. Ed è stato un modo diverso, non so se originale, ma certamente suggestivo, anche per festeggiare il mio compleanno.
In due mezze giornate, la bellezza di 46 km a piedi. Intensi, salutari, paradossalmente rilassanti.
Ma soprattutto il fascino di una passeggiata - anche un po' dura e faticosa, considerando i 10 kg di zaino sulle spalle - che a suo modo ti riconcilia con qualcosa di tuo, di profondo, di intimo.
Ti fa assaporare un lento spostarsi, diretto ad una meta: ogni passo che fai, senti che si avvicina. Anche se, nei momenti più duri, ti chiedi quando mai potrà arrivare...
Camminando puoi pensare. Conversare sì, con chi ti fa compagnia (eravamo in quattro in questa mini-spedizione, organizzata in pochi giorni, con l'entusiasmo di chi si affaccia ad "una prima volta").
E in definitiva è stata una "prima volta" davvero emozionante.
Con la diga alle spalle...
Perchè anche se non ti senti un vero e proprio "pellegrino", passo dopo passo, entri a contatto, direi quasi in simbiosi, con quell'ambiente che ti circonda: paesaggio "francescano" - nel vero senso del termine - fatto di aspre salite, veloci saliscendi, anche dai contorni variabili. Verde che si intervalla con il grigio. Luce che si mescola alle ombre. Si va dall'asflalto incerto della "strada dritta" - che di solito percorro per un po' di footing, ma altra cosa è farla con zaino in spalla e destinazione Assisi... Fino agli sterrati che si alternano già nei primi pendii verso Mengara. Per proseguire a banali tratti asfaltati - come nella zona della diga del Chiascio, che si propone fisicamente e plasticamente come vera "cattedrale nel deserto" - o a terreni letteralmente smottati come quello che precede la diga stessa, ai piedi della discesa di Biscina.
In cima alla salita di Mengara...
è già tempo di racchette
Tra i tratti più suggestivi, senza dubbio, il bosco che da Valdichiascio conduce a S.Pietro in Vigneto, quello che segue la zona di Valfabbrica per condurre ad Assisi, e il "neonato" bosco di San Francesco, a ridosso della Città del Poverello, che rappresenta un ingresso direi quasi "trionfale" per il pellegrino che si appresta a calpestare il piazzale della Basilica Superiore, imboccandola di lato non appena ci si lascia alle spalle l'ultimo "strappo" nel verde.
Un cammino da gustare tutto d'un fiato, verrebbe da dire, anche se non mancano - e ne diremo tra poco - anche i "lati oscuri".
Ma la sensazione che si assapora lasciandosi alle spalle Gubbio - con uno spettacolo panoramico mozzafiato dalle colline di Mengara - e che si gusta usciti dalla valle boschiva di Valfabbrica, quando comincia ad affiorare il campanile della Basilica Superiore, è di una piccola grande conquista: non si vince nulla, è chiaro. Ma ci si sente pieni di un che di diverso, di proprio, di interiore.
Passo dopo passo, soli con se stessi, si ha modo, si ha tempo, si ha anche la lucidità giusta per riflettere.
Per una volta soli - anche se sempre in compagnia - per prendere coscienza di quanto in fondo la sorte ci sia stata amica: nascere a due passi da queste colline, avere la fortuna di godere di questi scorci, di toccare con mano una pietra che racconta di storia, di arte, di meditazione, di spiritualità.
E - concludi - non averne piena coscienza fino ai 41 anni...
E' qualcosa che puoi ripeterti mnemonicamente, leggendo una qualsiasi guida. Ma per sentirtela dentro, devi imboccare il Sentiero. Farlo tuo, conquistartelo chilometro dopo chilometro. Magari accompagnato - come ho avuto la fortuna di fare - da persone speciali, da amici e anche (perchè no) da bel tempo...
Padre Basilio (primo a sinistra) - foto Press news
Un capitolo a parte lo meriterebbe padre Basilio, l'eremita che da anni vive a S.Pietro in Vigneto, una splendida pieve che lui stesso ha ricostruito in modo certosino dai ruderi post sisma del 1984. E' la prima vera tappa del Sentiero - se si ha la fortuna di poterla visitare (diciamo che la scelta del frate se aprire o meno le porte, è molto... soggettiva). Ma già la fatica comincia a farsi sentire e rifocillarsi nella quiete di un piccolo eremo, non è cosa da poco.
Ricordo ad esempio, la sensazione liberatoria di togliersi gli scarponi da trekking (con 15 km già alle spalle) e camminare praticamente scalzi nel cortile dell'abbazia, tra pietre levigate di un mattonato pregevole, per sbirciare gli angoli della piccola chiesa - praticamente una cappellina - tutta decorata e tornita dallo stesso padre Basilio, in stile direi quasi greco-bizantino: coinvolgente, quasi come fossimo in una scena di "Mediterraneo".
E poi il personaggio - di cui ho potuto apprezzare doti culinarie non secondarie - è un felice labirinto di vitalità, humor e pragmatismo dottrinario.
Prima di entrare in S.Pietro in vigneto. Le icone
simbolo, realizzate dallo stesso padre Basilio
Essere eremiti in un mondo che con un clic ti trasporta da un angolo all'altro del pianeta, non è una scelta facile. E basta leggersi la giornata di padre Basilio (in un riquadro all'esterno dell'abbazia) per capire che la scelta è di quelle che fanno la differenza.
Me ne ricordo un paio. Ore 4.30 sveglia. Ore 9 meditazione. Ore 20.30 compieta (che chi ha potuto apprezzare dal vivo, ha descritto come assolutamente coinvolgente).
Un pranzo "salutare" direi, e non solo sul piano nutrizionale (spaghetti ai porcini, una originalissima frittata con riso thailandese e verdure cotte).
Soprattutto per quelle proteine e carboidrati spirituali di cui abbiamo potuto cibarci in due ore di conversazione assolutamente insoliti: tra quasi sconosciuti, che nel giro di pochi minuti hanno spontaneamente potuto parlare di tutto.
Come se fuori non ci fosse nulla. Come se non ci attendessero ancora 30 km di cammino. Come se il giorno prima e qualche giorno dopo non ci aspettasse, ansiosa e pesante, la "solita" quotidianità...
E' stato anche un modo per dare un'occhiata alle condizioni del Sentiero. Ne avevo sentito parlare, sapevo che non fosse manutenuto alla grande. Francamente il contatto diretto è stato ancora più eloquente delle polemiche "per sentito dire".
Con Ila e Lamberto lungo la strada dritta (Cipolleto)
Detta tra noi, e senza mezzi termini, non si trova uno straccio di fontanella nel raggio di 30 km (da Gubbio a Valfabbrica), se si eccettua l'unico punto "ristoro" di fronte all'abbazia di S.Pietro in Vigneto dove meritoriamente padre Basilio - l'eremita che secondo la guida ufficiale del Sentiero "non vuol essere disturbato, quindi meglio proseguire" (è scritto testuale così!) - ha allestito all'esterno un piazzale utile per piantare una tenda o un piccolo camping e dotato di fontana e erogazione d'acqua (ovviamente a sue spese). Per il resto il tratto da Gubbio a Valfabbrica (i 2/3 del percorso totale) non presenta nè un minimo approvigionamento idrico (e vi garantisco che se ne sente la necessità, specie in questa stagione) nè una panchina, nè un piazzale dove sostare. Non proprio il massimo dei servizi per quello che in teoria aspira a diventare un "sentiero religioso".
E dire che di pellegrini se ne incontrano, e non pochi.
La "Barcaccia", pregevole abbazia...
con un morbidissimo prato su cui sdraiarsi...
Due me ne resteranno impressi, a fuoco. Due coniugi di Padova - credo poco meno che settantenni - conosciuti poco prima dell'arrivo a Valfabbrica, nella zona della "Barcaccia". Ci hanno raccontato molto di loro: sono partiti a piedi, proprio da Padova, il 1 maggio, percorrendo prima il sentiero di S.Antonio e poi da Laverna, quello della via Francigena. Hanno camminato anche per un'intera giornata sotto la pioggia battente. Ma non hanno mai perso nè il sorriso, nè la voglia di arrivare. Encomiabili.
Incontri casuali, incontri tra "pellegrini".
Lungo il percorso, in fondo, non sei quello che hai lasciato dietro la tua scrivania, in ufficio. Non hai voglia di tornare a farlo. Sei ciò che il tuo bastone (o la racchetta, più tecnologica ancora) riesce a consentirti di fare, procedendo verso la meta. Con l'unica prospettiva di dormire su un sacco a pelo (non lo facevo almeno da metà anni 80 - tempo di scout) in un ostello, trovandomi a tavola - un'unica tavola comune - con signori di mezza età provenienti dagli angoli più disparati dell'Europa. Due tedeschi di Monaco diretti niente meno che a Roma, i "nostri" padovani e un'altra comitiva di forestieri anch'essi diretti lungo la Francigena, provenienti da chissà dove.
Lo scorcio della Basilica lungo gli ultimi metri
del bosco di San Francesco
Arrivati ad Assisi, a dirla tutta, il contrasto diventa stridente. Lì la spiritualità o ce l'hai o te la devi immaginare. Il sollievo per i propri piedi fa da contrasto al vociare confuso dei turisti che massificano il flusso indistinto verso le due Basiliche. La quiete naturale del Sentiero è già un ricordo. Sotto la tomba del Poverello, l'immagine di un tavolino dove si raccolgono le offerte - destinate alle messe benedette - un po' mi stona. Mi rinfranca notare l'età del Poverello: è vissuto 44 anni. Non l'avevo mai notato. Appena 3 più di quanto ne compivo io proprio quel giorno...
Il silenzio seguito dal chiasso. La vocazione, quieta e personale, maturata lungo quasi 50 km di cammino, che si traduce in luogo di culto massificato. Il Sentiero è anche questo. Forse anche a Santiago, chissà?
Partiti con una benedizione di padre Francesco, dalla chiesa della Vittorina, appena in 4, con mia moglie e due carissimi amici di ventura, ci ritroviamo sommersi da migliaia di persone.
Fedeli, turisti, curiosi, frati, un cardinale imponente che ci sfila davanti, immancabili giapponesi che filmano tutto, e finalmente anche i nostri figli, che ci sono venuti a riprendere e con cui festeggeremo questo inedito 27 maggio... Anche Giovi, Vitti e i loro amichetti contribuiscono adeguatamente al bailamme generale, incastonato tutto intorno alle pietre secolari delle Basiliche di fronte alle quali si staglia il mega-palco che ospiterà il 4 giugno la serata musicale della Rai condotta da Carlo Conti.
Mi fermo un attimo: riposando, ma solo fisicamente perchè la mente, limpida e libera fino a qualche istante prima, si torna di nuovo ad affollare di quel caotico fuggi fuggi. Ripenso al silenzio di San Pietro in Vigneto.
In fondo il fascino del Sentiero è anche in questi contrasti... Assisi è questa, Assisi è lì.
A dirci che il lunedì tornerà tra non molto...
Cottafava e Bartolucci a fine gara...
è finito un incubo (foto Settonce)
Il sipario si chiude. Saluti e baci, la serie B fa ormai parte del passato.
Ci mancherà, per l’atmosfera da grande evento, per l’impatto mediatico senza precedenti, per la sensazione da Gardaland vissuta soprattutto nei primissimi mesi.
Non ci mancherà per le emozioni che ha regalato sul campo, per come il Gubbio, squadra, non è riuscita a recitare il ruolo che tutti auspicavano – la matricola rompiscatole capace di rosicchiare sabato dopo sabato i punti sufficienti a restare sul palcoscenico più ambìto. Come sono riusciti, a pieno, la città e i tifosi – dimostratisi entrambi assolutamente all’altezza di una vetrina come quella della serie cadetta.
Ci mancherà questa B per il blasone delle avversarie, per l’attesa dei confronti più sentiti, per il gusto di organizzare una trasferta in uno stadio celebre e magari mai visto. Non ci mancherà per quel magone che il sabato sera, quasi ogni sabato sera, questo campionato ci ha riservato, con il Gubbio costretto sempre ad inseguire, in campo e in classifica e che appena 7 volte è riuscito a vincere.
In questo, l’ultimo capitolo vissuto a Bari, al San Nicola – teatro 20 anni fa della finale per il 3° posto del mondiale – è stato emblematico: davanti a pochi intimi – 4000 tifosi che al Barbetti significano calore ed entusiasmo mentre nello stadio barese lo stesso numero di presenti vuol dire sconforto e desolazione – i rossoblù sono riusciti a regalare un sorriso all’ultima squadra, dopo aver resuscitato indirettamente molte dirette concorrenti.
Contava poco, e alla fine anche il pari dell’Albinoleffe con il Torino ha evitato il clamoroso sorpasso al fotofinish da parte dei bergamaschi, ma chiudere a testa vuol dire decisamente un’altra cosa.
Diciamo la verità, lo spettacolo visto sul campo negli ultimi 40 giorni è stato deprimente: ma non parliamo dei risultati (1 punto nelle ultime 6 partite, quelle che sulla carta sembravano alla portata) ma dell’atteggiamento, del carattere, della dignità di una squadra che evidentemente, in testa e nello spirito, si sentiva retrocessa già da un pezzo.
Ora si deve ripartire: inutile fare processi, chiamare in contumacia giocatori che torneranno alla casa madre, conservando di questa stagione pochi ricordi, dannoso sarebbe trasformare un’analisi attenta e lungimirante dei tanti errori fatti in uno semplice sfogatoio magari salutare per la bile profusa ma poco costruttivo.
Importante è capire da chi si riparte, come si riparte e per puntare a cosa. Con trasparenza, chiarezza e senza attendere tempi impropri.
Facendo insomma tesoro di quello che in fondo è mancato proprio quest’anno.
Prima però consentiteci un saluto e un abbraccio ideale a Gigi Simoni: che avrà anche lui commesso i suoi errori, da direttore tecnico e da allenatore, ma il cui ruolo in questo triennio di successi pressoché irripetibili, non può essere dimenticato.
E l’immagine pulita di quel che si definisce una persona per bene, è tanto più preziosa in una giornata come questa, dove il calcio scommesse – una piaga ormai paragonabile al doping ciclistico - per la prima volta è approdato anche a Coverciano. Sotto forma di avviso di garanzia.
Probabilmente il Gubbio non trarrà benefici da questa storia: ma di sicuro, grazie anche a persone come Simoni o come Simone Farina, oggi anche lui a Coverciano ma per espressa volontà della federazione, proprio la società rossoblù e la nostra città può fregiarsi di un titolo che non appare su nessun albo d’oro, ma che ha un valore inestimabile.
Ma forse, come per la favola che abbiamo vissuto negli ultimi 3 anni, ce ne accorgeremo solo tra un po’. Solo quando certe foto, certe facce e certi sorrisi saranno più ingialliti…
Per ora occhio, testa e anche gambe già alla prossima stagione. Che non sarà una Legapro di ripiego. Ma una grande sfida da cui ripartire. Con la stessa voglia di riscatto espressa in questi giorni dal capitano Sandreani.
Se è finita una corsa, non è finita comunque la strada. E per ora saluti e baci…
Copertina di "Fuorigioco" - 28.5.12
musica di sottofondo: "Goodbye kiss" - Kasabian (2012)
Serie B, ultima tappa. Una mesta passerella, in uno dei teatri più imponenti del calcio italiano, il "San Nicola" di Bari, ma dal sapore acre.
Come lo è la classifica di commiato del Gubbio dalla serie cadetta, come lo è ritrovare a distanza di un anno volti noti e facce ben conosciute, protagonisti del biennio d'oro che ha proiettato il rossoblù nelle alte sfere del calcio nazionale.
Si chiude di sera, ma l'aria di vernissage è lontana.
E' già tempo di "lavori in corso" negli stanzoni societari del Gubbio, dove intanto si fanno i primi conti del mercato in uscita (le operazioni Mario Rui a Parma e Bazzoffia in una società di A, dovrebbero dare ossigeno importante), si lavora per raccogliere la cifra sufficiente all'iscrizione (servono 600 mila euro per la Lega Pro e 800 mila per la B, all'insegna del "non si sa mai") e si guarda agli assetti del management e dello staff tecnico futuro.
Per ora l'unico certo di restare è di fatto Stefano Giammarioli, cui la società affiderà nuovamente il compito di allestire una squadra in grado di ben figurare, ovunque sarà chiamata a farlo.
La fiammella delle speranze ripescaggio resta accesa, ma dire che ci siano probabilità, almeno fino alla conclusione del I grado del I processo che si apre il prossimo 31 maggio, è una vera scommessa. E non è un gioco di parole.
Poi saranno questi i giorni in cui si scioglieranno nodi importanti: il futuro o meno in rossoblù per Luigi Simoni, che ha legato la sua presenza e il suo nome ai trionfi dell'ultimo triennio, conoscendo quest'anno l'onere e i risvolti di un incarico imprevisto, nel quale - a prescindere dai risultati - va dato atto che ha messo faccia, coraggio e alla fine anche il credito degli ultimi anni.
In panchina resta l'opzione Apolloni, come una delle probabili, ma meno certa di qualche giorno fa. Da più parti la società fa intendere di volersi guardare intorno e il volto vissuto ed esperto di Fabrizio Castori sembra affacciarsi all'orizzonte come una delle soluzioni alternative improntate sulla sicurezza.
La new entry degli ultimi giorni è invece quella di Rosario Zoppis, l'ex bomber rossoblù, cui il presidente Fioriti strizza l'occhio per un possibile ruolo di direttore generale con collegamento diretto con l'area tecnica: con le condizioni giuste Zoppis non direbbe di no, ma ancora è prematuro pensare che si stringa un accordo.
La buona notizia della settimana è che le basi economico-finanziarie da cui ripartire sembra sufficientemente solide, come ha ribadito all'ultimo Cda lo stesso presidente.
Non è una notizia scontata, vedendo i conti di decine di società in tutta Italia e non escludendo che a settembre si potrebbe ripartire con una serie C unica, divisa in 3 gironi, con piazze importanti e nobili del calcio nazionale, che farebbe somigliare l'avventura ad una specie di B2.
Il tutto, sempre lasciando un occhio a mister Palazzi: mentre lunedì Simone Farina, reduce dall'ennesimo faccia a faccia con Blatter in quel di Budapest, assisterà agli allenamenti della Nazionale a Coverciano, da giovedì prossimo tornerà sul palcoscenico il più celebre dei Procuratori federali per un nuovo copione ancora tutto da scrivere.
E se la commedia dovesse intitolarsi "Condanna esemplare", anche a Gubbio potrebbe scapparci, perchè no, il "tutto esaurito"...
Copertina de "Il Rosso e il Blu" - puntata di venerdì 25.5.12
musica di sottofondo: "Ultimo amore" - V.Capossela (2000)
Un video, spesso, proprio come l'immagine fotografica, parla più di tante parole.
Non è una disfuzione professionale, data dalla ventennale attività televisiva. E' la verità. Conferma ne è che - ad esempio - al concorso "Guida la vita - Il senso della vita" dedicato alla sicurezza stradale, il 90% degli elaborati curati dalle classi scolastiche partecipanti, sono dei video.
L'immagine penetra, l'immagine colpisce. L'immagine raggiunge l'obiettivo. La parola spiega, ma potendolo fare con l'ausilio delle immagini, si trova, per così dire, la strada spianata. Non credo sarà mai surrogata, la parola. Ma intanto, anche grazie alle tecnologie più avanzate, chiunque può filmare, fotografare, documentare un fatto o un evento, con un semplice clic: altra cosa semmai è raccontarlo e commentarlo (altrimenti noi giornalisti non avremmo futuro...).
Sarà anche per questo che sono rimasto favorevolmente colpito dal video realizzato da Nicolò Favaro e Adelaide Spadafora, dedicato alla Biblioteca Sperelliana, che ha vinto la IV edizione del concorso "A corto di libri", svoltosi nell'ambito del Salone del libro di Torino: un montaggio brillante ed originale, realizzato con la collaborazione del Teatro della Fama (oltre 30 comparse con 1.500 libri utilizzati per la realizzazione della scena), ma con un'idea geniale di fondo: "Scegli la tua storia".
Dietro ogni libro, si nasconde una storia, un sogno, un appassionante passeggiata.
Spesso è la pigrizia, più che la scarsità di tempo effettivo, ad impedirci di imboccare questo sentiero: ma una volta approcciato - se il libro merita, è ovvio - è difficile perdersi. Impossibile tornare indietro.
L'inverno mi ha aiutato a conoscere un'iniziativa assolutamente meritoria, promossa proprio dalla Biblioteca Sperelliana, che mi sento di suggerire per il futuro, a chiunque di sperimentare. Con figli o senza.
Si tratta del "Sabato in biblioteca", un'intelligente operazione di cultura e marketing di sè stessi, che riesce a coniugare le necessità familiari con il desiderio di prendersi una pausa e, perchè no, leggersi un bel libro.
La formula è semplice: ogni sabato pomeriggio un'iniziativa ludica e di intrattenimento per i più piccoli, animata e promossa da esperti del settore. Al tempo stesso, per i genitori, l'opportunità di trascorre un'ora (o se preferite anche due) navigando in rete o leggendo un libro, in uno dei tanti accoglienti locali della nuova Sperelliana.
Sembrerà l'uovo di Colombo, un progetto che già esiste da secoli altrove. Beh, dalle nostre parti no. E avendolo felicemente sperimentato quest'anno, posso dire che è un'idea geniale, per stimolare l'afflusso di lettori o aspiranti tali, nelle sale suggestive e affascinanti della nuova Sperelliana.
In più, si consente ai più piccoli di divertirsi ma anche di venire a contatto (epidermico e ludico) con il libro: un compagno di viaggi sempre più desueto nel mondo di internet e di Nintendo vari, che rischia di diventare come il lontano parente dell'Australia. Lo si sente, lo si saluta (e nel caso del libro, lo si legge) solo per le feste comandate.
Oppure, peggio ancora, lo si affronta solo in modo magari "ostile", più spesso "ostico", come strumento di confronto sui banchi di scuola. Quasi fosse un nemico da superare. Anzichè un indispensabile "fratello" di vita.
Il sabato alla Sperelliana è una delle migliori iniziative culturali che al momento questa comunità possa annoverare: come spesso avviene, iniziativa silenziosa, poco "strombazzata", ma non certo inefficace. E per fortuna, anche molto partecipata. Speriamo possa crescere...
Scendendo dal monte, domenica, ho avuto modo di riflettere. Un po' perchè pioveva (e la pioggia, non so perchè, ti porta sempre a pensare). Un po' perchè ero solo (e anche questo è abbastanza insolito in un qualsiasi giorno ceraiolo). Un po' per le notizie che mi arrivavano, frammentarie ma abbastanza univoche, su quanto stava accadendo nel chiostro della Basilica, dopo l'arrivo dei ceri mezzani (per un anno che non sono arrivato in cima...).
Chi avrebbe immaginato che questo 2012 ceraiolo sarebbe, forse, stato ricordato più per quel che è successo il 20 che non il 15 maggio?
Certo, sei cadute (sei) non son poche. E già questo numero basta da solo a rendere la corsa dei mezzani difficilmente anonima.
Ma, per quanto una caduta possa "far male" ad un ceraiolo giovane e magari carico di entusiamo, adrenalina e, perchè no, sana ambizione (voler diventare un ottimo ceraiolo, non "fare le scarpe" al prossimo), le ferite reali di questa giornata sono altre.
Quelle di cronaca, con due feriti veri, di cui uno grave (personaggio per altro conosciuto, con ruoli istituzionali in passato) - e al momento ancora ricoverato a Perugia in rianimazione - a causa della caduta di un cero, una questione certamente preoccupante, che fa passare tutto il resto decisamente in secondo piano.
Lo stesso dicasi, fortunatamente con minori conseguenze ma non meno spavento, per un 16enne che la mattina, in Piazza Grande, dopo l'alzata se l'è vista molto brutta, per il taglio profondo provocato dalle "solite" brocche, pregevoli manufatti ma taglienti come lame affilate quando si rinnova il rito dell'alzata.
Alla ferite di cronaca, si aggiungono quelle materiali sui ceri stessi. Pesanti, più del solito, quelle riportate da San Giorgio, con lo sfondamento del prisma superiore: mai visto un cero malridotto come si è potuto appurare da vicino in cima a via dei Consoli, mai visti tutti e tre contemporaneamente in posizione orizzontale "da intervento d'urgenza". Singolare che proprio il cero caduto una sola volta abbia riportato i danni maggiori e quello che ha ceduto tre volte (ahime, Sant'Antonio, per giunta mai per "mano" santantoniara) sia uscito praticamente "illeso". Il cero però, si sa, si può riaggiustare e, almeno su questo, i falegnami eugubini potranno godere di qualche lavoretto in più per le prossime settimane.
Pesano invece ancora di più le "ferite morali" di questa giornata. Come spesso avviene al di fuori del 15 maggio - soprattutto il 2 giugno, ma anche per i mezzani - i problemi nascono da situazioni contraddittorie e paradossali: non foss'altro perchè le questioni maggiori vengono create da chi, per motivi anagrafici, opportunamente dovrebbe restare, se non ai margini, quanto meno a debita distanza dal cuore della festa. Che in quanto festa dei ceri mezzani dovrebbe coinvolgere solo e soltanto i ragazzi più giovani. Senza bisogno di tutor di passaggio o in pianta stabile.
Con l'edizione 2012 dei mezzani poi non ci si è fatti mancare nulla: dalle cadute in corsa fino alle "solite" discussioni dentro il chiostro della Basilica, stigmatizzate (temo inutilmente) perfino dall'altare.
La saggezza anagrafica dovrebbe suggerire di lasciare proprio ai ceraioli - quelli dei ceri mezzani, però - l'onere e l'onore di decidere cosa fare, come risolvere un problema, come sbrogliare una situazione delicata, che sia una caduta, o la permanenza di tutti tre i ceri nel chiostro.
Morale: si è persa l'ennesima occasione per lasciare che la Festa dei Ceri esprimesse il suo significato più naturale ed elementare: l'omaggio al Patrono e il sentire comune dei ceraioli (in questo caso, più giovani).
A freddo, col passare dei giorni, molti dettagli di queste vicende emergeranno ulteriormente. Ci sarà modo per tutti di riflettere, pensare e magari correggere il "tiro" su quel che è stato detto, fatto e magari anche scritto (come nel mio caso). Auspicando su tutto che i feriti, quelli veri, nel frattempo si siano ripresi.
Di sicuro si può dire che proprio loro, proprio i ceraioli del mezzano, siano stati protagonisti e vittime, al tempo stesso, di quella che è e doveva essere niente più che la loro festa. Magari con gli errori e le storture che spesso appartengono all'esuberanza della giovane età, con le cadute che una corsa può anche comportare: ma non c'è niente di più salutare (evito di usare il termine "educativo" che mi sembra troppo...) che sbagliare con la propria testa...
Speriamo almeno abbiano imparato, a proprie spese, cosa non fare tra qualche anno quando saranno loro a dover garantire che altri giovani possano godersi, fino in fondo, le gioie e anche le amarezze di una festa dei ceri.
Qualunque sia l'età, qualunque sia il giorno in cui si celebra...
Peggio non poteva finire. Sconfitta – e questa non è una novità – ma con l’ultima in classifica che non vinceva da 6 mesi.
Il Gubbio si congeda nel peggiore dei modi dal proprio pubblico, dopo aver già salutato la serie B definitivamente la scorsa settimana. Non è bastato il clima euforico della Festa dei Ceri per defibrillare una squadra che evidentemente non ne ha più, né sul piano fisico né su quello dell’orgoglio.
Con due tiri in porta l’Albinoleffe si è preso i tre punti, che paradossalmente tengono aperta la possibilità per i bergamaschi di acciuffare i penultimo posto a pari merito con i rossoblù, spedendoli in fondo per il miglior bilancio negli scontri diretti.
L'esultanza del gol di Guzman: durerà meno
di mezz'ora (foto Settonce)
Alla squadra di Apolloni non è bastato un avvio sprint, il gol in apertura di Guzman, che poi ha anche colto il quattordicesimo legno stagionale.
Ma non è certo la sfortuna la matrice di questa ennesima sconfitta, nata sì dagli episodi a favore della squadra ospite, ma risultato anche di una prestazione agonistica dell’undici eugubino che ha fatto irretire anche il più appassionato dei tifosi.
Che pure erano tanti sugli spalti, nonostante il tempo inclemente e la concomitanza con la festa dei ceri mezzani.
Chiudere con dignità era l’obiettivo minimo richiesto dalla piazza e anche da tecnico e società, ma evidentemente a questo punto, con la barca alla deriva ormai da un pezzo, è chiedere troppo.
Un epilogo così però finisce per rovinare davvero tutto, anche il poco di buono – che pure c’era stato – i ricordi delle imprese, il feeling che in ogni caso non era del tutto smarrito con la piazza.
Simoni e Giammarioli: mestamente soli
in curva ospiti (foto Settonce)
E’ un peccato perché questa piazza non meritava una stagione così – ma si sa che nel calcio si può vincere e si può perdere. Di sicuro non merita un commiato così deprimente e poco dignitoso, che a questo punto lascia l’ultimo appello alla giornata conclusiva che il destino si è divertito a combinare con il Bari di Torrente e dei tanti ex. Tanto per gettare un po’ di quel che resta del sale di questa stagione insipida, sulla ferita della retrocessione.
Stasera si svolgerà un direttivo importante per la Gubbio calcio: per capire da dove e con chi ripartire. Facendo tesoro, questo è necessario, dei tanti troppi errori commessi.
E anche di questo finale che francamente ci saremmo risparmiati volentieri…
Copertina di "Fuorigioco" del 21.5.12
musica dfi sottofondo: "Shout" - Tears for fears (1984)
Due partite e poi si volta pagina. Guardare avanti, programmare, porre le basi per il futuro.
Sarà la sfida tra le deluse, le condannate, le retrocesse, quella che vede di fronte Gubbio e Albinoleffe. Sfida apparentemente quasi inutile per la classifica anche se un qualche significato dovrà averlo.
Intanto l’orgoglio: quella pietra preziosa rispolverata proprio dai bergamaschi nel recupero del “Bentegodi”, contro il Verona lanciatissimo verso la A, ma incapace di mettere sotto l’undici celeste già predestinato alla Lega Pro. Una bella prova di correttezza sportiva, in un momento tragicomico del calcio nazionale.
E poi anche qualche spicciolo che non guasta: arrivare penultimi significa guadagnare 100 mila euro in più nel paracadute dei contributi della B. Quindi non perdere vorrebbe dire qualcosa di significativo per le casse societarie.
Ma siamo certi che Apolloni e la sua squadra non penseranno a questo scendendo in campo. La sconfitta col Padova ha segnato la sentenza, anche se il verdetto era stato emesso da qualche settimana.
Vincere non sarà inutile per il morale di un gruppo che ovviamente è con il termometro sotto i tacchi e che forse solo dall’atmosfera della Festa dei Ceri, vissuta spensieratamente dopo il solito allenamento, ha ritrovato qualche stimolo identitario.
Vincere vorrebbe dire dimostrare di esserci ancora, magari ritagliarsi qualche speranza residuale, seppur ridottissima, di terzultimo posto. Regalare al pubblico eugubino – probabilmente distolto tra i più giovani dalla concomitante festa dei ceri mezzani – l’ultimo sorriso di una stagione troppo tribolata e negativa per essere vera.
Dell’appendice scommesse non si parla più da qualche giorno. Non è un buon segno per chi sperava di ottenere dalla Commissione Disciplinare quel che il campo aveva negato. C’è solo da aspettare.
E nel frattempo vincere quel poco che resta, e soprattutto impostare il futuro dei rossoblù: con la lucidità e la lungimiranza conosciute in passato, prima di questo turbolenta stagione.
Partendo dal quadro societario, a quello manageriale, fino a quello tecnico. Da capire il destino della coppia Simoni-Giammarioli, se sarà comune, se sarà ancora in rossoblù. Da capire gli obiettivi della società – che quest’anno ha finito per spendere, soprattutto a gennaio, senza centrare però l’obiettivo - e di conseguenza il destino di Apolloni: che vorrebbe restare, ma che deve ancora capire.
Tutto questo però dopo Albinoleffe e Bari: mesto commiato di un’annata carica di emozioni, ma dal finale certamente poco gradevole.
Copertina de "Il Rosso e il Blu" - venerdì 18.5.2012
musica di sottofondo: "Out of the game" - Rufus Rainwright (2012)
Un mazzolino di fiori sul mio comodino. E' quello che mi resta di questo 15 maggio.
Non è un mazzolino qualsiasi. Intanto i colori, un rosso sgargiante e un bianco. In fondo sono quelli tra i più diffusi e comuni in questa giornata.
Non ho mai provato a contare quante volte i nostri occhi incontrino il bianco e il rosso ogni 15 maggio: ma credo che servano almeno 5 zeri.
Questo mazzolino però ha qualcosa di speciale. Me l'ha regalato mia figlia, il giorno prima della Festa dei Ceri. Se l'era procurato all'oratorio Don Bosco, dove alcune ragazze stavano preparando centinaia di mazzolini per la Festa. L'ho sentito come un regalo prezioso, anche se temevo di perderlo - come mi succede ogni anno (di solito non riesco neppure ad uscire da Piazza Grande con il mazzolino addosso).
Stavolta no. Stavolta è rimasto saldamente annodato nel fazzoletto rosso, un rosso - quest'ultimo - un po' sbiadito nel tempo: è il fazzoletto che la Famiglia dei Santantoniari fece realizzare sul finire degli anni '70, con un leggero bordino bianco - quasi impercettibile - e l'immagine del simbolo della Famiglia al centro del triangolo rosso, con stilizzata la sagoma del cero di Sant'Antonio. Mio padre ne aveva tre, uno per lui, due per i suoi figli.
Era stato un primissimo approccio di pseudo-merchandising - ma forse è meglio definirlo, semplicemente, autofinanziamento - abbozzato in quegli anni dalla Famiglia dei Santantoniari. Tornato in auge proprio quest'anno con i nuovi kee-way, le t-shirt e i bicchieri da taverna. Come dire: le buone idee non tramontano.
Il mazzolino di Vittoria è l'immagine plastica del 15 maggio che custodisco da qualche ora. Una Festa dei Ceri meravigliosa. Come può esserlo respirare dopo un'apnea di minuti. Come può essere un suo bacio.
Una giornata iniziata in modo diverso - forse per la stanchezza accumulata nei giorni precedenti, forse per l'età che comincia a richiedere il "dosaggio accurato" di energie, in vista delle fatiche pomeridiane.
Fatto sta che forse per la prima volta, da anni, il primo contatto con la Festa dei Ceri è stato piuttosto ritardato, quasi 8 e mezzo del mattino, sfilata dei Santi, all'altezza del bar Padeletti.
Per la verità è uno dei momenti più spensierati della giornata: l'aria è fresca - e quest'anno anche pungente - ci si ritrova con i ceraioli vestiti a tutto punto, ci si scambia baci e "in bocca al lupo", ci si abbraccia come se fossero anni che si mancasse all'appello, anche con chi, magari, hai trascorso la sera della vigilia con te fino a qualche ora prima. Ma è bello così. La chiamo la "sfilata dei baci", con le statuine dei santi che sembrano godersela danzando impazienti sulla loro barella, al ritmo di "Fabrizia" o di "Giove", marcette militari prorompenti che preannunciano un giorno carico di ritmi. E al momento giusto, proprio su quelle mattonelle, di felici "assalti".
E' stato un 15 maggio carico di motivazioni personali, più che in passato. Ne avevo bisogno. Per scrollare di dosso un po' di tossine ceraiole accumulate da qualche mese. Per quelle non esisteva ricetta farmaceutica, medicina o massaggio taumaturgico per mettersi alle spalle la delusione. Solo una terapia avrebbe funzionato. Risentire il calore dei ceraioli, risentire la stanga sulla spalla, lo stomaco chiuso a doppia mandata, i polpastrelli a temperatura freezer. Quelle sensazioni così estranee a chi talvolta ti circonda, proprio in quei momenti. Così familiari per chi ha il cero nel sangue. Così insostenibili nei minuti che precedono la spallata. Così desiderabili nei giorni successivi alla Festa, quando hai la consapevolezza che un altro anno dovrà trascorrere. E che i tuoi, di anni, non consentiranno molte altre "immersioni" nell'atmosfera vibrante delle "sei meno cinque".
E pensare che le mie "sei meno cinque" di questo 2012 resteranno a loro modo indimenticabili.
Per la prima volta le ho vissute in cima alla Callata dei Neri. Ad attendere la Processione del Patrono, a sostenere un ceraiolo con la metà dei miei anni, che mi aveva chiesto di fargli da "braccere" per il suo battesimo sulla Callata. Non potevo dirgli di no. Sentivo di doverlo anche a suo padre, che mi aveva sostenuto. Con convinzione e sincerità.
La Callata dei Neri 2012 - foto Gavirati
E' stato straordinario. Dopo 20 anni passati nella muta di "Barbi", trovarmi lì. E osservare tutto, con l'occhio di chi ormai ha - ahimè - troppa esperienza per farsi rapire dall'apprensione consentendole di appannare anche i dettagli di ciò che lo circonda. Ho assaporato tutto, in quello spicchio di mezz'ora, forse meno, preceduta da un saluto fugace alle altre mute che seguono, risalite a ritroso: Barbi, la muta di sempre; Migliarini, toccata fugacemente solo da braccere col mezzano; la Statua, croce e delizia sempre col mezzano. E infine su la Callata. Davanti la nostra chiesetta.
Aspettando che quei minuti scorressero via. Toccando la stanga, incoraggiando Giovanni, dando un'occhiata alla muta che pochi minuti prima, richiamata da Lore Ragni, si è riunita silenziosamente nella chiesetta dei Neri. Sarei voluto andare anch'io. Magari solo per origliare quel momento di silenzioso ritrovarsi. Che deve essere fantastico. Un po' come appoggiare il palmo della mano sulle mattonelle di "Barbi" qualche minuto prima che sbuchi la mantellina. E assumerne il calore.
Una specie di carburante morale. Che visto da fuori, può sembrare stupido e banale. Ma per chi è "dentro" non lo è affatto. E ha sempre un suo perchè.
Ho evitato (di entrare in chiesa) rispettando quello che deve essere "il momento della muta". Ma mi è piaciuto vederlo anche da fuori. Ho sentito che c'era tensione ma anche grande compattezza. Che quel gesto si sentiva e non si faceva perchè fosse un obbligo. Perchè era forte, incoraggiante. E bello...
E poi gli istanti prima. Quel baldacchino irriconoscibile (la Statua del Patrono) che da dietro (da braccere del ceppo dietro) scorgi a mala pena, dondolante tra il vociare che si smorza. Quel vuoto totale che ti ritrovi alle spalle con una via Savelli deserta - proprio come raccontatomi anni fa da Renato Maria Rogari, storica punta dietro della Callata, che cercò anche di sintetizzare in un suo video, montato con maestria e sentimento. Quegli istanti che sembrano scanditi da una clessidra otturata e spietata.
Poi, sinistro avanti, e si parte. Ed è come tuffarsi in una turbina, nel buco di una lavatrice, nel vagone di un convoglio in cima alle montagne russe. Non c'è tempo per capire tutto questo, per godersi la pellicola del film che si sta intepretando. C'è solo la Callata e ci sei tu. Come una montagna da scalare, una belva da domare. Sei in fondo e ti chiedi perchè sia già tutto finito... Anche se è inebriante pensare che sia andato tutto bene, le urla di quei giovani che vivono le loro prime spallate sono trascinanti. E intanto, mentre l'abbraccio del dopo-spallata si consuma, cerchi di spingerti più in là possibile, oltre la curva, per vedere come va il Corso...
Il braccere è questo. Esserci da ragazzo, con l'aspirazione di abbrancare un giorno quella stanga.
Esserci poi, anni dopo, da veterano, con la scorza ormai indurita, ma la voglia ancora genuina di quel gesto: il dare, il mettere a servizio non più l'agilità di un tempo, ma - conservando in parte anche quella - soprattutto la propria esperienza, in cambio di un sorso di quelle emozioni che furono.
Dopo aver "avuto tanto" da quelle spallate, è anche giusto "restituire" quel vissuto. Magari con un consiglio. O con la presenza, se da sola può rassicurare. Da braccere.
Come sulle birate del mattino, con Fabrizio Menichetti "Palle". Non lo vedevo da un secolo. Poi è risbucato il 15 maggio. Me l'aveva accennato Danilo che avrebbe voluto ridare una spallata dopo tanto tempo. Non ci ho pensato due volte. Lasciargli quei pochi metri - mezza girata, tra la folla, giusto il tempo di sistemarsi la stanga e già ti arriva il cambio - avrebbe significato tanto per lui. E ovviamente, dopo averci parlato e aver letto quel sorriso di soddisfazione, gli ho detto: "Però io te rifò 'l braccere".
Già, dopo 20 anni. Era il 1990 quando iniziai con lui, a Santa Maria. Per poi scorrere "da Barbi" (anno del Nanne capodieci, con disavventure connesse), per poi raccogliere la stanga qualche anno dopo, prima da ceppo e quindi da punta dietro. Ricordi di gioventù, che si sono riaccesi per qualche secondo in quella birata: "Palle" col braccio largo e via, sotto, a spingere quel cero che faticava a farsi spazio tra la gente. E tra le urla.
Poi l'altra "birata". Quella della sera. Stavolta sull'asciutto. Niente pista da pattinaggio, come gli ultimi due anni. Lucidi, sereni, convinti. Direi quasi, cattivi (se non fosse che il termine sa un po' troppo di sportivo). Nemmeno la "manfrina" dei preliminari santubaldari, che ci hanno costretti col cero sulle spalle per un paio di interminabili minuti, l'ha avuta vinta. Anzi, forse più rabbiosi di quanto non saremmo stati, siamo entrati in piazza. Che emozione. Che trionfo. Trionfo emozionale!
Tutto questo non ha prezzo... Nessun regalo, con fiocco e dedica, potrebbe ripagarti quei secondi, quei passi, quei flash colorati che ti sfiorano ai lati, mentre percorri la folla e ignori l'incrocio di suoni - Campanone e boato - di sguardi, di colori, di geometrie.
Tra le tante "prime volte" di questo 2012, c'era anche il capodieci delle girate, Mattia. Era "sceso" in città da capodieci tre anni fa, al mio posto, proprio quando avevo deciso di lasciare il pezzo de "l'uscita" e tornare a punta. L'ho ritrovato, io da punta, lui da capodieci, proprio sulla partenza di quelle birate, in cima ai Consoli. Prima di muovere, mi ha chiesto se ero pronto. L'ho rivisto dopo, mi cercava tra la folla e abbracciandomi sorridente ha urlato: "Ma te si matto, me volei fa cadè proprio l prim'anno?".
Pezzetti di 15 maggio, sparsi come le briciole di ceramica delle brocche in Piazza Grande. Intensi come la birata durante la mostra davanti casa del nonno Pompeo, insieme a mio padre capodieci, mio fratello altra punta e con Giovi, mio figlio, a braccere. Lo ha scritto anche sul suo temino a scuola. Lo ha raccontato subito anche alla nonna di Umbertide per telefono (anche lei se non sa assolutamente cosa significhi "braccere").
Magari un giorno anche lui si ricorderà di questa giratella... E di questo 2012...
Immortalato in modo sublime in un'istantanea semplicemente toccante.
E' lo sguardo e l'abbraccio del nostro capodieci, di Fabrizio, in cima al monte. Proprio con suo figlio, salito sulla barella. In quel flash c'è molto, c'è tanto, quasi tutto, della Festa dei Ceri.
Come nell'abbraccio di santantoniari nello spiazzo davanti la "Cia", al termine di una corsa memorabile - momento di sintesi euforica, di coralità, di simbiosi, di unione.
Altro non può essere, la Festa dei Ceri.
Non è un pezzo di legno. Non è una gara sui 100 metri. Non è una sfida di sollevamento pesi. Quelle arriveranno tra qualche settimana, a Londra 2012.
Qui c'è molto di più. C'è la vita. Se non il meglio, certamente tra i tasselli più preziosi, tra i momenti più spontanei e tra i gesti più sinceri che possa regalarti.
Un regalo atteso e puntuale, ogni anno, ma sempre sorprendente.
Proprio come quel mazzolino rosso e bianco, che ora è appoggiato sul comodino, in camera mia.
E che mi ricorda un 15 maggio... da non finire...
Colonna sonora per questo pezzo: "La Terre vue du ciel" - Armand Amar
sottofondo musicale della clip della "mostra" in "Festa dei Ceri 2012" - Video
L'augurio di una giornata da ricordare, da rivivere, da raccontare.
L'augurio di essere noi stessi, niente di più' ma niente di meno. E soprattutto niente di diverso da cio' che ci ha sempre contraddistinti.
L'augurio di esprimere ed essere attraversati da emozioni autentiche.
L'augurio di vedere e sentire cio' che cerchiamo in una giornata unica.
L'augurio di essere cio' che erano i nostri padri e cio' che vorremmo un giorno siano i nostri figli.
L'augurio di superare steccati e divisioni.
L'augurio di guardare oltre il proprio io e restare coniugati con il noi.
L'augurio di onorare la memoria di chi c'e' stato, senza limitarci a tre brevi birate ed un inchino.
L'augurio di alzare in alto i calici per dichiarare sentimenti sinceri.
L'augurio di sopportare il peso del cero non perche' lo devo, ma perche' lo desidero.
L'augurio di coronare i propri sogni senza calpestare quelli degli altri.
L'augurio di abbracciarsi ogniqualvolta ne sentiamo il bisogno.
L'augurio di onorare il Patrono con le sue parole e il suo esempio, non con le interpretazioni che ci fa comodo dargli.
L'augurio di sentirsi appagati e fortunati dopo una giornata come questa, senza aspettare la fine della corsa.
L'augurio di vivere gli autentici valori della festa con il sorriso di un bambino, l'orgoglio di un adulto e la saggezza di un anziano.
L'augurio di un 15 maggio uguale e diverso da tutti gli altri: dove veder scorrere il meglio della nostra vita, le sensazioni più' intense, i sentimenti più' vibranti, le gioie e le delusioni che aiutano a crescere. Che ci consentono di farci sentire fieri di appartenere a questa comunita'.
Il Corso del 2006, il nostro sguardo
di... attesa - foto Paolo Tosti
I Ceri negli anni della crisi. Chissà, magari tra un paio di secoli, troveremo questo titolo in qualche opuscolo, in una ricostruzione storica, in un periodico locale – chissà se ancora su carta stampata, chissà con quale moneta acquistato.
“I Ceri negli anni della crisi” è una frase che somiglia ai reportage di fine anni Venti. Un’espressione pessimistica. Certamente distante dall’atmosfera che il 15 maggio riesce ad esprimere e a regalare. Anche ai più ignari avventori.
E rivedendo in questi giorni proprio le immagini di quel periodo – grazie all’opera preziosa che Media Video e il collega Gianluca Sannipoli ha proseguito, dal ’95 ad oggi – o apprezzando in questi ultimi anni tanti filmati professionali o amatoriali – toccati con mano e quasi sfogliati grazie alla trasmissione “L’Attesa” - si assaggia la frugalità e l’evidente pauperismo dei tempi: capigliature, costumi, arredi, manifestano la cifra quotidiana di una società costretta ad “arrancare”, a mettere insieme il pranzo – non a caso assurto a vero e proprio “evento” della Festa, nella trasfigurazione eno-gastronomica della “Tavola bona” – con il vestito buono (probabilmente l’unico) del giorno importante.
Una Gubbio umile, semplice, modesta ma ugualmente fiera. Che non rinuncia a celebrare il rito. Che non dimentica l’eleganza delle proprie vestigia. Che non si esime dal riproporre, nella veste più solenne e partecipata possibile, per quelle epoche, la sua Festa.
Vien da pensare, a distanza di anni, che i Ceri sapessero coniugare accanto alle tradizionali propensioni religiose e al diffuso sentire verso il Patrono, anche esigenze e motivazioni, per così dire, inconsapevolmente sociologiche: una sorta di “diversivo”, di potente anestetico, capace di ovattare e ammorbidire, almeno per qualche giorno, almeno per quel giorno, le difficoltà e le ristrettezze quotidiane. Una nicotina emozionale capace di accendere d’improvviso sensazioni e istanti che la quotidianità non poteva che aver dimenticato.
Come dire: il presente non è granché, ma ci sforziamo a non dimenticare chi siamo e soprattutto da dove veniamo. Una constatazione straordinariamente attuale, tristemente vera.
I Ceri negli anni della crisi sono stati e continuano ad essere anche questo. La forza e la capacità di riscoprire – o se preferite, di conservare – la bontà di sentimenti e di emozioni che difficilmente si possono apprezzare nel fare quotidiano. La leggerezza di gesti, la semplicità di un grazie, di una stretta di mano, di una pacca sulla spalla: divenuti così rari, se non addirittura estranei, nell’era dello spread, del sollecito di pagamento, delle ri.ba. inevase.
Ma la straordinaria vitalità dei Ceri, la inossidabilità di una festa che si perpetua da almeno 8 secoli e mezzo, la sua freschezza emotiva, che la rende così unica e distante (anni luce) dalle rievocazioni storiche – suggestive e affascinanti nel contorno folclorico, ma in vero splendide fiction di una realtà che non esiste – sta nell’essere “figlia” sempre e comunque dei propri tempi. Un’enorme spugna, che assorbe le energie, gli umori, i costumi del presente, le sfaccettature e i modi d’essere, i comportamenti e le piccolezze, gli slanci e le bassezze. Uno specchio, fedele come può esserlo solo quello attraverso cui ci si guarda da soli. Ci si guarda da secoli.
La Festa dei Ceri non ha, e non può avere, un canovaccio. Non esiste copione, non c’è un protocollo formale che non siano alcune cerimonie per altro di contorno alla reale essenza del 15 maggio.
Ma i Ceri, al tempo della crisi, sono anche un’opportunità irripetibile per l’immagine della città.
In quegli anni Trenta, vennero perfino dalla Francia, pionieri della documentazione cinematografica prima e televisiva poi, a testimoniare come tradizioni e folclore potessero sopravvivere al trascorrere dei secoli e alle asperità del presente.
Oggi la Festa dei Ceri continua a rappresentare un formidabile serbatoio di potenzialità, sul piano dell’immagine, grandemente inespresse.
Il caso Unesco insegna che si può pagare a caro prezzo l’altezzosa scelta di “correre da soli” – mossi dal comprensibile ritegno a mescolare il proprio patrimonio con altri alquanto dissimili, per storia, stile e retroterra culturale.
Ma la vera lezione di cui far tesoro è la capacità di superare ragionamenti di autosufficienza, autoreferenziali e spesso un po’ patetici, che confondono il sentimento, intimo e da vivere dentro le proprie mura, con le strategie di immagine, da esportare al di fuori dei nostri piccoli confini. Territoriali e anche mentali.
Due diverse dimensioni che spesso, chi nella Festa ha ruolo e veste istituzionale, rischia di sovrapporre, con un pizzico di miopia e scarsa lungimiranza.
Scendendo dal piedistallo di una vanagloria che ha senso, solo guardando al passato, si arriverebbe a scoprire che tanto c’è da conoscere ancora, di nobile e glorioso, intorno alla Festa dei Ceri.
A cominciare proprio dai Ceri, dalla loro forma sublime, dal progetto architettonico, frutto di un cenacolo artistico, culturale e scientifico di altissimo spessore – come testimoniato e dimostrato, empiricamente, dal pregevole studio del prof. Paolo Belardi in “Divinae Proportiones” – cui si riallaccia la perfezione delle forme e delle proporzioni dei Ceri, alla magnificenza e fascino delle opere del Quattrocento dei Montefeltro, della corte di Duca Federico, dell’effervescenza dell’umanesimo di una Gubbio tra le vere capitali culturali dell’epoca.
Di questa grandezza, così distante e così remota dall’attualità, abbiamo ancora una percezione solo parziale. E sostanziata, materialmente, dalla preziosa ricostruzione dello Studiolo del Duca.
I Ceri negli anni della crisi. Un giorno, chissà quando, ci piacerebbe leggere che furono anche questo: un momento di autenticità popolare ed emozionale. Ma anche di riflessione e riscoperta dei virtuosismi di una storia che appartiene, come patrimonio immateriale ma sostanziale, a questa comunità: e che nessuna crisi e nessuna congiuntura possono cancellare. GMA
Da "Il Giornale dell'Umbria" - inserto speciale Festa dei Ceri - domenica 13.5.2012