Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 17 maggio 2012

Un mazzolino di fiori, un fiume di sensazioni... E un 15 maggio da non finire...

Un mazzolino di fiori sul mio comodino. E' quello che mi resta di questo 15 maggio.
Non è un mazzolino qualsiasi. Intanto i colori, un rosso sgargiante e un bianco. In fondo sono quelli tra i più diffusi e comuni in questa giornata.
Non ho mai provato a contare quante volte i nostri occhi incontrino il bianco e il rosso ogni 15 maggio: ma credo che servano almeno 5 zeri.
Questo mazzolino però ha qualcosa di speciale. Me l'ha regalato mia figlia, il giorno prima della Festa dei Ceri. Se l'era procurato all'oratorio Don Bosco, dove alcune ragazze stavano preparando centinaia di mazzolini per la Festa. L'ho sentito come un regalo prezioso, anche se temevo di perderlo - come mi succede ogni anno (di solito non riesco neppure ad uscire da Piazza Grande con il mazzolino addosso).
Stavolta no. Stavolta è rimasto saldamente annodato nel fazzoletto rosso, un rosso - quest'ultimo - un po' sbiadito nel tempo: è il fazzoletto che la Famiglia dei Santantoniari fece realizzare sul finire degli anni '70, con un leggero bordino bianco - quasi impercettibile - e l'immagine del simbolo della Famiglia al centro del triangolo rosso, con stilizzata la sagoma del cero di Sant'Antonio. Mio padre ne aveva tre, uno per lui, due per i suoi figli.
Era stato un primissimo approccio di pseudo-merchandising - ma forse è meglio definirlo, semplicemente, autofinanziamento - abbozzato in quegli anni dalla Famiglia dei Santantoniari. Tornato in auge proprio quest'anno con i nuovi kee-way, le t-shirt e i bicchieri da taverna. Come dire: le buone idee non tramontano.

Il mazzolino di Vittoria è l'immagine plastica del 15 maggio che custodisco da qualche ora.
Una Festa dei Ceri meravigliosa. Come può esserlo respirare dopo un'apnea di minuti. Come può essere un suo bacio.
Una giornata iniziata in modo diverso - forse per la stanchezza accumulata nei giorni precedenti, forse per l'età che comincia a richiedere il "dosaggio accurato" di energie, in vista delle fatiche pomeridiane.
Fatto sta che forse per la prima volta, da anni, il primo contatto con la Festa dei Ceri è stato piuttosto ritardato, quasi 8 e mezzo del mattino, sfilata dei Santi, all'altezza del bar Padeletti.
Per la verità è uno dei momenti più spensierati della giornata: l'aria è fresca - e quest'anno anche pungente - ci si ritrova con i ceraioli vestiti a tutto punto, ci si scambia baci e "in bocca al lupo", ci si abbraccia come se fossero anni che si mancasse all'appello, anche con chi, magari, hai trascorso la sera della vigilia con te fino a qualche ora prima. Ma è bello così. La chiamo la "sfilata dei baci", con le statuine dei santi che sembrano godersela danzando impazienti sulla loro barella, al ritmo di "Fabrizia" o di "Giove", marcette militari prorompenti che preannunciano un giorno carico di ritmi. E al momento giusto, proprio su quelle mattonelle, di felici "assalti".

E' stato un 15 maggio carico di motivazioni personali, più che in passato. Ne avevo bisogno. Per scrollare di dosso un po' di tossine ceraiole accumulate da qualche mese. Per quelle non esisteva ricetta farmaceutica, medicina o massaggio taumaturgico per mettersi alle spalle la delusione. Solo una terapia avrebbe funzionato. Risentire il calore dei ceraioli, risentire la stanga sulla spalla, lo stomaco chiuso a doppia mandata, i polpastrelli a temperatura freezer. Quelle sensazioni così estranee a chi talvolta ti circonda, proprio in quei momenti. Così familiari per chi ha il cero nel sangue. Così insostenibili nei minuti che precedono la spallata. Così desiderabili nei giorni successivi alla Festa, quando hai la consapevolezza che un altro anno dovrà trascorrere. E che i tuoi, di anni, non consentiranno molte altre "immersioni" nell'atmosfera vibrante delle "sei meno cinque".

E pensare che le mie "sei meno cinque" di questo 2012 resteranno a loro modo indimenticabili.
Per la prima volta le ho vissute in cima alla Callata dei Neri. Ad attendere la Processione del Patrono, a sostenere un ceraiolo con la metà dei miei anni, che mi aveva chiesto di fargli da "braccere" per il suo battesimo sulla Callata. Non potevo dirgli di no. Sentivo di doverlo anche a suo padre, che mi aveva sostenuto. Con convinzione e sincerità.

La Callata dei Neri 2012 - foto Gavirati

E' stato straordinario. Dopo 20 anni passati nella muta di "Barbi", trovarmi lì. E osservare tutto, con l'occhio di chi ormai ha - ahimè - troppa esperienza per farsi rapire dall'apprensione consentendole di appannare anche i dettagli di ciò che lo circonda. Ho assaporato tutto, in quello spicchio di mezz'ora, forse meno, preceduta da un saluto fugace alle altre mute che seguono, risalite a ritroso: Barbi, la muta di sempre; Migliarini, toccata fugacemente solo da braccere col mezzano; la Statua, croce e delizia sempre col mezzano. E infine su la Callata. Davanti la nostra chiesetta.
Aspettando che quei minuti scorressero via. Toccando la stanga, incoraggiando Giovanni, dando un'occhiata alla muta che pochi minuti prima, richiamata da Lore Ragni, si è riunita silenziosamente nella chiesetta dei Neri. Sarei voluto andare anch'io. Magari solo per origliare quel momento di silenzioso ritrovarsi. Che deve essere fantastico. Un po' come appoggiare il palmo della mano sulle mattonelle di "Barbi" qualche minuto prima che sbuchi la mantellina. E assumerne il calore.
Una specie di carburante morale. Che visto da fuori, può sembrare stupido e banale. Ma per chi è "dentro" non lo è affatto. E ha sempre un suo perchè.

Ho evitato (di entrare in chiesa) rispettando quello che deve essere "il momento della muta". Ma mi è piaciuto vederlo anche da fuori. Ho sentito che c'era tensione ma anche grande compattezza. Che quel gesto si sentiva e non si faceva perchè fosse un obbligo. Perchè era forte, incoraggiante. E bello...
E poi gli istanti prima. Quel baldacchino irriconoscibile (la Statua del Patrono) che da dietro (da braccere del ceppo dietro) scorgi a mala pena, dondolante tra il vociare che si smorza. Quel vuoto totale che ti ritrovi alle spalle con una via Savelli deserta - proprio come raccontatomi anni fa da Renato Maria Rogari, storica punta dietro della Callata, che cercò anche di sintetizzare in un suo video, montato con maestria e sentimento. Quegli istanti che sembrano scanditi da una clessidra otturata e spietata.
Poi, sinistro avanti, e si parte. Ed è come tuffarsi in una turbina, nel buco di una lavatrice, nel vagone di un convoglio in cima alle montagne russe. Non c'è tempo per capire tutto questo, per godersi la pellicola del film che si sta intepretando. C'è solo la Callata e ci sei tu. Come una montagna da scalare, una belva da domare. Sei in fondo e ti chiedi perchè sia già tutto finito... Anche se è inebriante pensare che sia andato tutto bene, le urla di quei giovani che vivono le loro prime spallate sono trascinanti. E intanto, mentre l'abbraccio del dopo-spallata si consuma, cerchi di spingerti più in là possibile, oltre la curva, per vedere come va il Corso...

Il braccere è questo. Esserci da ragazzo, con l'aspirazione di abbrancare un giorno quella stanga.
Esserci poi, anni dopo, da veterano, con la scorza ormai indurita, ma la voglia ancora genuina di quel gesto: il dare, il mettere a servizio non più l'agilità di un tempo, ma - conservando in parte anche quella - soprattutto la propria esperienza, in cambio di un sorso di quelle emozioni che furono.
Dopo aver "avuto tanto" da quelle spallate, è anche giusto "restituire" quel vissuto. Magari con un consiglio. O con la presenza, se da sola può rassicurare. Da braccere.

Come sulle birate del mattino, con Fabrizio Menichetti "Palle". Non lo vedevo da un secolo. Poi è risbucato il 15 maggio. Me l'aveva accennato Danilo che avrebbe voluto ridare una spallata dopo tanto tempo. Non ci ho pensato due volte. Lasciargli quei pochi metri - mezza girata, tra la folla, giusto il tempo di sistemarsi la stanga e già ti arriva il cambio - avrebbe significato tanto per lui. E ovviamente, dopo averci parlato e aver letto quel sorriso di soddisfazione, gli ho detto: "Però io te rifò 'l braccere".
Già, dopo 20 anni. Era il 1990 quando iniziai con lui, a Santa Maria. Per poi scorrere "da Barbi" (anno del Nanne capodieci, con disavventure connesse), per poi raccogliere la stanga qualche anno dopo, prima da ceppo e quindi da punta dietro. Ricordi di gioventù, che si sono riaccesi per qualche secondo in quella birata: "Palle" col braccio largo e via, sotto, a spingere quel cero che faticava a farsi spazio tra la gente. E tra le urla.

Poi l'altra "birata". Quella della sera. Stavolta sull'asciutto. Niente pista da pattinaggio, come gli ultimi due anni. Lucidi, sereni, convinti. Direi quasi, cattivi (se non fosse che il termine sa un po' troppo di sportivo). Nemmeno la "manfrina" dei preliminari santubaldari, che ci hanno costretti col cero sulle spalle per un paio di interminabili minuti, l'ha avuta vinta. Anzi, forse più rabbiosi di quanto non saremmo stati, siamo entrati in piazza. Che emozione. Che trionfo. Trionfo emozionale!
Tutto questo non ha prezzo... Nessun regalo, con fiocco e dedica, potrebbe ripagarti quei secondi, quei passi, quei flash colorati che ti sfiorano ai lati, mentre percorri la folla e ignori l'incrocio di suoni - Campanone e boato - di sguardi, di colori, di geometrie.
Tra le tante "prime volte" di questo 2012, c'era anche il capodieci delle girate, Mattia. Era "sceso" in città da capodieci tre anni fa, al mio posto, proprio quando avevo deciso di lasciare il pezzo de "l'uscita" e tornare a punta. L'ho ritrovato, io da punta, lui da capodieci, proprio sulla partenza di quelle birate, in cima ai Consoli. Prima di muovere, mi ha chiesto se ero pronto. L'ho rivisto dopo, mi cercava tra la folla e abbracciandomi sorridente ha urlato: "Ma te si matto, me volei fa cadè proprio l prim'anno?".

Pezzetti di 15 maggio, sparsi come le briciole di ceramica delle brocche in Piazza Grande. Intensi come la birata durante la mostra davanti casa del nonno Pompeo, insieme a mio padre capodieci, mio fratello altra punta e con Giovi, mio figlio, a braccere. Lo ha scritto anche sul suo temino a scuola. Lo ha raccontato subito anche alla nonna di Umbertide per telefono (anche lei se non sa assolutamente cosa significhi "braccere").

Magari un giorno anche lui si ricorderà di questa giratella... E di questo 2012...
Immortalato in modo sublime in un'istantanea semplicemente toccante.
E' lo sguardo e l'abbraccio del nostro capodieci, di Fabrizio, in cima al monte. Proprio con suo figlio, salito sulla barella. In quel flash c'è molto, c'è tanto, quasi tutto, della Festa dei Ceri.
Come nell'abbraccio di santantoniari nello spiazzo davanti la "Cia", al termine di una corsa memorabile - momento di sintesi euforica, di coralità, di simbiosi, di unione.

Altro non può essere, la Festa dei Ceri.
Non è un pezzo di legno. Non è una gara sui 100 metri. Non è una sfida di sollevamento pesi. Quelle arriveranno tra qualche settimana, a Londra 2012.

Qui c'è molto di più. C'è la vita. Se non il meglio, certamente tra i tasselli più preziosi, tra i momenti più spontanei e tra i gesti più sinceri che possa regalarti.
Un regalo atteso e puntuale, ogni anno, ma sempre sorprendente.
Proprio come quel mazzolino rosso e bianco, che ora è appoggiato sul comodino, in camera mia.
E che mi ricorda un 15 maggio... da non finire...



Colonna sonora per questo pezzo: "La Terre vue du ciel" - Armand Amar
sottofondo musicale della clip della "mostra" in "Festa dei Ceri 2012" - Video

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