Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

martedì 1 maggio 2012

Ricordi e ritagli di quel 29 aprile '84... e una conclusione paradossale: non tutto il male (terremoto compreso) vien per nuocere

Non so quante volte mi sia successo. Steso sul letto, quasi al buio. Cerco di focalizzare le sporgenze rettangolari delle travi che risaltano nel soffitto della mia camera da letto. Sono fisse, immobili. Quasi eterne. Ma in un istante, ripenso a quei secondi.
Quei secondi - non saprei dire quanti, ma mi sembrarono un'infinità e al tempo stesso un'inezia - in cui vidi il soffitto tremare. Per la verità non ho l'immagine ben chiara di quella vibrazione. Ricordo il boato, la sensazione improvvisa di un tumulto, la confusione dettata dal dormiveglia e dall'incoscienza di quanto stesse accadendo, se fosse un sogno o se fossi davvero sveglio (erano le 7 di una domenica mattina, e anche se tredicenne e ancora lontano dagli orari da discoteca, non era tempo di alzarsi).
Una sensazione però conservo con la nettezza e la limpidezza di quei momenti: il senso di impotenza. Il sentirsi piccoli, inermi, quasi predestinati a chissà quale sventura. Di fronte al ruggito della natura, che mai può farsi sentire così insensibile e feroce, come con una scossa di terremoto.

E' stato Simone Zaccagni a farmi riaccendere la lampadina, con una sua riflessione su facebook. Un suo personale ricordo che ha condiviso con me. Ma che ha aiutato le mie meningi a rimuovere qualche pila di scatoloni (i più, inutili) che nascondevano il ricordo di quella memoria. Che occultavano i frame di quella domenica mattina. Che offuscavano i contorni di quel 29 aprile 1984.
http://www.facebook.com/#!/gma71/posts/343770339009500

Il terremoto lo avevo già sentito. Un paio d'anni prima, qualche piccola scossa - mi sembra d'estate, ma non ne sono certo. Ma a confronto, sembrava l'eco di una banda che attraversa qualche vicolo di San Pietro il pomeriggio del 15 maggio: un'onda sonora, non so neanche se sussultoria o ondulatoria, che arriva quasi a intermittenza. Come se venisse tagliata da qualche angolo di pietra che si frappone tra gli strumenti e la finestra pronta ad accoglierla.
Quella mattina no. Quella mattina lo sentii benissimo. E ricordo che in un balzo, mi ritrovai sotto la finestra, istintivamente. Come se lì, anche se dal primo piano, anche se con le persiane chiuse, potessi riceverne qualche beneficio: anzi, tempo dopo, seppi che sarebbe stato il posto meno indicato dove rifugiarsi in caso di cedimenti... meglio così...
Ricordo che mi ritrovai con tutta la famiglia in giardino, nel giro di pochi minuti: non so se addosso avessi una vestaglia o un golf preso al volo (fine aprile a Gubbio non è ancora primaverile alle 7 di mattina) sicuramente tanta angoscia. Non tanto per quello che si era passato, ma per quello che ci attendeva.
Mio fratello, che dormiva nella mia stessa camera, aveva 10 anni, appena compiuti, mia sorella appena 3. Non era il caso di restare a dormire a casa.
Ma come spesso avviene, è un frangente curioso e inaspettato a sdrammatizzare la situazione. Ogni quesito, interrogativo, domanda, vennero interrotti da mio nonno Stefano: lui, buon anima, si affacciò dalla finestra, e rivoltosi a noi, in giardino, vedendoci con pigiama, ciabatte e vestaglia, ci chiese: "Ma che ce fate a st'ora di fuori? Non ve prende il freddo?".
A 87 anni, beato lui, non aveva sentito niente. Ma aveva notato qualcosa di evidentemente insolito.

Finimmo nel giro di poche ore ad abitare sulla casetta di campagna (zona Madonna della Cima): un trilocale in cemento armato, monopiano, sufficientemente solido e compatto per garantire tutti sulla incolumità in caso di altre scosse. L'unico "inconveniente" è che in quei 60-70 mq per un paio di settimane ci ritrovammo una decina di persone (due famiglie), con nonni e bambini inclusi, i miei cugini, con cui dividemmo i letti della mia cameretta, babbo e zio che dormirono in due brandine in camera da pranzo e le mamme che finirono nel matrimoniale con le rispettive figlie: ma in realtà la scomodità venne felicemente travolta dall'emozione di un'esperienza insolita e dal clima "da gita scolastica" che quella strana situazione finì per generare.

Alcuni flash mi restano di quei giorni.

Il pomeriggio del 29 aprile, il giorno stesso del terremoto, girammo con l'auto di mio padre, nelle zone di Belvedere e Scritto, vicino all'epicentro, dove si diceva che ci fossero i danni maggiori. Sentivamo la radio: Radio Gubbio, in diretta quasi 24 ore su 24 - e fu una mano santa per tenere collegata una comunità che altrimenti si sentiva molto più isolata di quanto già non fosse - con il bollettino quotidiano di padre Martino Siciliani, divenuto in pochi giorni una sorta di guru delle vicende telluriche. Ma salire per la strada di Mengara e vedere dal vivo quelle case solcate da ferite profonde, da crepe inimmaginabili - se non in un documentario sui terremoti devastanti del Medio Oriente o del Giappone - fu molto impressionante. E l'emozione era mista ad una voglia intestina di raccontare e farsi raccontare tutto questo: forse un germe di quella passione giornalistica che sarebbe venuta a galla qualche anno dopo. E poi gli episodi sentiti e trapassati di casa in casa su quella giornata, nella quale il passaparola equivaleva ad una agenzia Ansa: rimasi colpito, ad esempio, nel sapere che i miei coetanei di S.Agostino fecero la cresima in piazza davanti la chiesa, perchè ritenuta inagibile (io con gli amici della parrocchia di San Giovanni ero neocresimato appena 4 giorni prima, il 25 aprile in Duomo).

Il suono del Campanone il 1 maggio: non so come, ma ricordo di averlo sentito da lontano. Non credo dalla casetta - sarebbe impossibile - ma ricordo di aver avvertito, sentendolo, qualcosa di forte, di nuovo, di rassicurante. Come una città che gridava al mondo che si sarebbe risollevata.

E infine il boato: cupo, sordo e inquietante. Dalla Madonna della Cima lo sciame sismico aveva queste fattezze. Non si muoveva nulla, la scossa non arrivava o forse perdeva la sua energia. Ma si ascoltava, nel suo rigurgito sonoro più profondo e angosciante. E ogni volta che questa eco così tenebrosa si faceva largo, ci chiedevamo quali altri danni il terremoto avrebbe potuto provocare...

Poi, la vita tornò pian piano alla normalità. E di lì a poco finimmo per convincerci che in fondo quel terremoto ci aveva regalato un paio di settimane "diverse da solito". E - questo l'avremmo compreso un decennio più tardi - ci avrebbe garantito la ricostruzione di buona parte della città e del centro storico, con un'iniezione di vitalità economica e di sicurezza urbanistica non indifferenti (nel '97, ad esempio, i danni furono limitatissimi).
Non passò un anno, però, che ci accorgemmo - con la caduta di un intonaco dentro casa - che le conseguenze del sisma erano state molto più serie di quanto non sembrasse, a casa nostra. Esattamente 9 mesi dopo il terremoto ci saremmo trasferiti in un'altra abitazione, a fianco dei nonni materni, in Piazza Bosone (era il 1985). "Staremo poco" mi dissero i miei. Sarebbero passati 3 anni prima di rientrare a casa.
Anche se quei 3 anni, vissuti nell'enclave inimitabile e poliedrica del quartiere di S.Martino, resteranno tra i ricordi più belli della mia adolescenza...

Come dire: non tutto il male vien per nuocere. Perfino, quando si chiama "terremoto"...

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