Il Corso del 2006, il nostro sguardo di... attesa - foto Paolo Tosti |
“I Ceri negli anni della crisi” è una frase che somiglia ai reportage di fine anni Venti. Un’espressione pessimistica. Certamente distante dall’atmosfera che il 15 maggio riesce ad esprimere e a regalare. Anche ai più ignari avventori.
E rivedendo in questi giorni proprio le immagini di quel periodo – grazie all’opera preziosa che Media Video e il collega Gianluca Sannipoli ha proseguito, dal ’95 ad oggi – o apprezzando in questi ultimi anni tanti filmati professionali o amatoriali – toccati con mano e quasi sfogliati grazie alla trasmissione “L’Attesa” - si assaggia la frugalità e l’evidente pauperismo dei tempi: capigliature, costumi, arredi, manifestano la cifra quotidiana di una società costretta ad “arrancare”, a mettere insieme il pranzo – non a caso assurto a vero e proprio “evento” della Festa, nella trasfigurazione eno-gastronomica della “Tavola bona” – con il vestito buono (probabilmente l’unico) del giorno importante.
Una Gubbio umile, semplice, modesta ma ugualmente fiera. Che non rinuncia a celebrare il rito. Che non dimentica l’eleganza delle proprie vestigia. Che non si esime dal riproporre, nella veste più solenne e partecipata possibile, per quelle epoche, la sua Festa.
Vien da pensare, a distanza di anni, che i Ceri sapessero coniugare accanto alle tradizionali propensioni religiose e al diffuso sentire verso il Patrono, anche esigenze e motivazioni, per così dire, inconsapevolmente sociologiche: una sorta di “diversivo”, di potente anestetico, capace di ovattare e ammorbidire, almeno per qualche giorno, almeno per quel giorno, le difficoltà e le ristrettezze quotidiane. Una nicotina emozionale capace di accendere d’improvviso sensazioni e istanti che la quotidianità non poteva che aver dimenticato.
Come dire: il presente non è granché, ma ci sforziamo a non dimenticare chi siamo e soprattutto da dove veniamo. Una constatazione straordinariamente attuale, tristemente vera.
I Ceri negli anni della crisi sono stati e continuano ad essere anche questo. La forza e la capacità di riscoprire – o se preferite, di conservare – la bontà di sentimenti e di emozioni che difficilmente si possono apprezzare nel fare quotidiano. La leggerezza di gesti, la semplicità di un grazie, di una stretta di mano, di una pacca sulla spalla: divenuti così rari, se non addirittura estranei, nell’era dello spread, del sollecito di pagamento, delle ri.ba. inevase.
Ma la straordinaria vitalità dei Ceri, la inossidabilità di una festa che si perpetua da almeno 8 secoli e mezzo, la sua freschezza emotiva, che la rende così unica e distante (anni luce) dalle rievocazioni storiche – suggestive e affascinanti nel contorno folclorico, ma in vero splendide fiction di una realtà che non esiste – sta nell’essere “figlia” sempre e comunque dei propri tempi. Un’enorme spugna, che assorbe le energie, gli umori, i costumi del presente, le sfaccettature e i modi d’essere, i comportamenti e le piccolezze, gli slanci e le bassezze. Uno specchio, fedele come può esserlo solo quello attraverso cui ci si guarda da soli. Ci si guarda da secoli.
La Festa dei Ceri non ha, e non può avere, un canovaccio. Non esiste copione, non c’è un protocollo formale che non siano alcune cerimonie per altro di contorno alla reale essenza del 15 maggio.
Ma i Ceri, al tempo della crisi, sono anche un’opportunità irripetibile per l’immagine della città.
In quegli anni Trenta, vennero perfino dalla Francia, pionieri della documentazione cinematografica prima e televisiva poi, a testimoniare come tradizioni e folclore potessero sopravvivere al trascorrere dei secoli e alle asperità del presente.
Oggi la Festa dei Ceri continua a rappresentare un formidabile serbatoio di potenzialità, sul piano dell’immagine, grandemente inespresse.
Il caso Unesco insegna che si può pagare a caro prezzo l’altezzosa scelta di “correre da soli” – mossi dal comprensibile ritegno a mescolare il proprio patrimonio con altri alquanto dissimili, per storia, stile e retroterra culturale.
Ma la vera lezione di cui far tesoro è la capacità di superare ragionamenti di autosufficienza, autoreferenziali e spesso un po’ patetici, che confondono il sentimento, intimo e da vivere dentro le proprie mura, con le strategie di immagine, da esportare al di fuori dei nostri piccoli confini. Territoriali e anche mentali.
Due diverse dimensioni che spesso, chi nella Festa ha ruolo e veste istituzionale, rischia di sovrapporre, con un pizzico di miopia e scarsa lungimiranza.
Scendendo dal piedistallo di una vanagloria che ha senso, solo guardando al passato, si arriverebbe a scoprire che tanto c’è da conoscere ancora, di nobile e glorioso, intorno alla Festa dei Ceri.
A cominciare proprio dai Ceri, dalla loro forma sublime, dal progetto architettonico, frutto di un cenacolo artistico, culturale e scientifico di altissimo spessore – come testimoniato e dimostrato, empiricamente, dal pregevole studio del prof. Paolo Belardi in “Divinae Proportiones” – cui si riallaccia la perfezione delle forme e delle proporzioni dei Ceri, alla magnificenza e fascino delle opere del Quattrocento dei Montefeltro, della corte di Duca Federico, dell’effervescenza dell’umanesimo di una Gubbio tra le vere capitali culturali dell’epoca.
Di questa grandezza, così distante e così remota dall’attualità, abbiamo ancora una percezione solo parziale. E sostanziata, materialmente, dalla preziosa ricostruzione dello Studiolo del Duca.
I Ceri negli anni della crisi. Un giorno, chissà quando, ci piacerebbe leggere che furono anche questo: un momento di autenticità popolare ed emozionale. Ma anche di riflessione e riscoperta dei virtuosismi di una storia che appartiene, come patrimonio immateriale ma sostanziale, a questa comunità: e che nessuna crisi e nessuna congiuntura possono cancellare.
GMA
Da "Il Giornale dell'Umbria" - inserto speciale Festa dei Ceri - domenica 13.5.2012
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