Fatto di gesti semplici e spesso banali, di battute al "vetriolo" e scherzi irripetibili. Di legami profondi e irrinunciabili. Un habitat che a volte sa trasformarsi in un meraviglioso palcoscenico di una fiction reale, e in realtà irriproducibile (difficile da rappresentare persino con queste poche banali considerazioni). Nessun maestro di cinema, per capirci, saprebbe raffigurarlo con autenticità...
Penso a tutto questo, pochi giorni dopo che se ne è andato Bruno Padeletti. Titolare dell'omonimo bar di corso Garibaldi, nel cuore di Gubbio. Il suo bar - ancora oggi gestito dal figlio Vincenzo, e riferimento di una cittadina che, come altre, al di fuori delle mura appare sempre più diversa, urbanisticamente e demograficamente - meriterebbe di essere ormai segnalato nelle cartine turistiche. O addirittura di avere accanto all'ingresso uno di quei pannelli che il Comune ha recentemente distribuito negli angoli più caratteristici della città, per segnalare piazze, monumenti, luoghi di interesse culturale.
Perchè il bar Padeletti (o "Padeletto" - denominazione da idioma popolare spontaneo ma proprio per questo inossidabile) è stato ed è destinato a rimanere qualcosa più che un semplice bar, un luogo di ritrovo, un locale pubblico.
Per decenni è stato l'agorà di una commedia non scritta in cui personaggi, protagonisti e comparse, si alternavano, al ritmo di un aperitivo o un caffè shakerato. Talvolta confondendo quello che voleva essere un normale esercizio di somministrazione bevande, in un sipario improvvisato e dal copione imprevedibile. Perchè dentro, fuori e intorno al bar Padeletti si sono mescolate figure diverse, personaggi tipici della Gubbio che cresceva e che cambiava, generazioni differenti nei modi di parlare come nei costumi, nelle abitudini come nei gusti, nelle apatie come nelle più irresistibili gag.
Non volendolo, neanche questo, ma diventandolo inevitabilmente, grazie allo spirito che vi si respirava e alla goliardica (e forse troppo spesso irriverente) effervescenza di alcuni avventori - da cui deriva una celebre esclamazione a firma di Philip Breakstone nei suoi esilaranti racconti su "Gubbio Oggi" anni 90: "te potesse capità un cliente peggio de quelli de Padeletto...".
Bruno, il mite Bruno, troneggiava dietro al bancone dall'alto di una possenza che era inversamente proporzionale alla quiete e alla affabilità del suo animo. Lui, imperturbabile e spesso impermeabile alle vicissitudini che si consumavano di fronte o appena fuori quei pochi inimitabili metri quadri, non ha fatto mai nulla per accaparrarsi questa "compagnia" poco collaborativa - in tanti e in troppi hanno dilazionato pagamenti, che spesso fingevano di dimenticare. Nè ha fatto nulla per disfarsene.
Non ho avuto la fortuna di vivere personalmente la verve degli anni Settanta, l'atmosfera di questo locale gravido di "macchiette", di profili degni di una pellicola di Monicelli, di "Amici miei" forse con meno ironia raffinata di un Adolfo Celi ma spesso più esilaranti e impertinenti di un Tognazzi.
Ne ho assaggiato diversi tratti negli anni Ottanta e Novanta, quando l'evoluzione quasi antropologica della città era fotografata mirabilmente dai leggeri e sottili mutamenti dei costumi e delle vicende che ruotavano attorno al Bar Padeletti.
I Ceri solcano il Corso, di fronte a Padeletti... |
Ma il particolare più curioso, nel periodo ceraiolo e non, è un altro (da residente attiguo): è una tendenza ancora oggi in vigore, quasi si trattasse di una norma da rispettare nei secoli. Una legge non scritta per cui decine di persone si radunano a concludere i propri discorsi o le serate, anche fino a tarda notte, di fronte al bar Padeletti. Anche quando questo è chiuso e serrato da ore. Non un metro più su, non un metro più giù. Ma proprio lì davanti. E dire che non mancano altri bar sul corso. E il Corso ha i suoi 300 metri di lunghezza. Eppure un'ideale calamita li fa stare lì. Ineluttabilmente. Ce n'è abbastanza per erigere il sito agli altari della toponomastica.
Un rito, la visita al bar, la domenica mattina, come lo era ritrovarsi le sue paste la domenica a pranzo, che il nonno riportava - bignè al cioccolato o sfogliatine metà panna montana e metà cioccolato - che sparivano presto dalla tavola, spolverate in pochi secondi insieme alle ore di laboriosa preparazione.
Ecco la chiave di tutto: il Bar Padeletti in realtà era un tempio. E quel bancone, un altare. Dove ogni giorno si consumava una liturgia laica, incosciente ma straordinariamente carica di umanità. Anche nelle situazioni meno piacevoli.
La scorsa estate ho letto un libro: "La carta più alta" (di Marco Malvaldi). Lo suggerisco a chi ha voglia di sorridere e di immergersi in un piccolo giallo di provincia (in questo caso, toscana) arricchito dal frizzante e irresistibile carisma di alcuni avventori di un bar, che diventa il fulcro di un incredibile microcosmo. Dove umori, odori ed emozioni si confondono, tra menti aride e sentimenti sinceri. Tra bassezze di modi e altitudini di sincerità.
In fondo - ho capito leggendo queste pagine - anche la vita dietro e davanti il bancone di un bar può raccontare la storia di una comunità.
E nessun bancone può raccontare Gubbio come un giorno, chissà lo potrebbe fare quello del bar Padeletti...
Arrivederci Bruno... Gentile signore...
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