Che strano. Proprio nella settimana delle polemiche sulle dichiarazioni di Marchionne - l'iper ceo di Fiat che dichiara di lavorare una media teutonica di 18 ore a dies - mi ritrovo a sfogliare la terza storia del libro "Io non lavoro", di Serena Bortone e Mariano Cirino.
Il titolo mi aveva incuriosito non appena era stata annunciata la presentazione del volume - mi aspettavo una di quelle ricerche piene di numeri o un carosello di racconti sfigati sulla disoccupazione incipiente e dilagante, magari proprio ambientata nell'immancabile Mezzogiorno.
Invece, sbirciando nella prefazione, mi accorgo che si tratta di storie vere di italiani che per propria precisa scelta, hanno deciso di vivere senza lavorare. Mi chiedo: in che epoca sono ambientate queste storie?
Ovviamente sono più che attuali.
E allora è scattato un pizzico di rabbia, quasi un sussulto. Non nei confronti degli autori, ma del tema scelto. Ti pare, di questi tempi? E' quasi una presa in giro...
Vado alla presentazione del libro, a Gualdo Tadino, in un incontro dell'Acli, e mi accorgo che diverse persone, intervenendo, manifestano questo stesso imbarazzo. Che quasi trasuda un po' di indignazione. L'autrice - una collega sorridente e, alla fine intuisco, munita di serbatoi speciali di pazienza - ascolta attenta, spiega che non ce l'ha con nessuno ma che non c'è niente di male nel raccontare la storia di persone che, sì, di primo acchito sembrano lontane anni luce dai nostri problemi quotidiani. E invece esistono, invece vivono proprio così, senza lavorare. E in fondo lo fanno senza pretendere di essere modelli.
"Pensate - ha abbozzato provocatoria Serena Bortone - a quante persone rovinano la nostra società, pretendendo di lavorare senza saperlo fare, e magari rubano il posto a gente motivata, volonterosa e con molto talento addosso". Una frase che ha avuto l'effetto di un trapano su un muro di compensato.
La mia curiosità è salita vertiginosamente. E quella che doveva essere una banale intervista da news, è diventata un "a tu per tu" per il mio "Link".
L'intervista, appena potrò, la caricherò direttamente su questo post, linkandola dal sito trgmedia.it (vi assicuro, tra non molto).
Per ora qualche impressione sulle prime tre storie del libro: Giorgio, Aurora e Antonio, che però si fa chiamare Leonardo. Tre mondi diversi, anche tre generazioni, in parte, diverse.
Tutti però alla ricerca di una libertà che il lavoro, l'ufficio, il capoufficio, l'inseguire continuo del risultato, dell'obiettivo, della meta, rendevano asfittica.
Nessuno di loro vive specificamente di rendita, ma tutti rifuggono quel laccio (tutt'altro che emostatico, un vero e proprio cappio al collo) che appare loro il lavoro, il dovere quotidiano. In un caso, quello di Aurora, questa ricerca di libertà passa anche attraverso drammatiche esperienze, come la droga, il vagabondaggio più marginale. Ma è il ritrovarsi - accanto ad un amico, ad un compagno, ad un'attività che esalta il proprio talento, magari mai caldeggiato dagli stereotipi di famiglia o di paese (se non hai un lavoro o una laurea, non sei nessuno) - che dà significato alla storia stessa. Che restituisce speranza e dignità al personaggio. Anche al più diseredato o - come nel caso di Aurora - al più irresponsabile: che preferisce abbandonarsi all'eroina piuttosto che "finire" in un posto sicuro (e garantito) in banca a far conti dietro uno sportello.
"Nessuno dei personaggi di questo libro ha mai voluto lavorare, e prima o poi ce l’ha fatta", recita l'introduzione del libro.
Dall’ereditiera di una famiglia ricca, al grande manager che ha dato scacco ai suoi capi, al fiero sfaccendato che guarda dall’alto le miserie altrui, fino alla sognatrice che si accontenta di poco. Tutti accomunati dal miraggio della libertà assoluta.
Il lavoro è una condizione indispensabile per realizzare la propria personalità e una cosiddetta posizione sociale: nella famiglia, nella società, nello Stato.
Eppure leggendo queste storie si viene a conoscenza di una realtà nuova e quasi inaspettata: un’altra vita – quella senza lavoro – è possibile. Una vita in cui è il tempo ad essere a nostra disposizione (e non viceversa a dettare la cadenza ciclica della nostra giornata); i giorni scorrono liberi e l’orologio diventa un semplice soprammobile a muro. O l’alternativa ad un originale bracciale.
Per non contare, aggiungo io, del telefonino, dell’agenda elettronica (o cartacea che sia), delle immancabili scadenze che ogni giorno impone. E che se arrivi a rinviare, si accavallano con quelle del giorno dopo.
Un libro che è una continua provocazione: un qualcosa in più di uno schiaffetto alla nostra coscienza, su ciò che siamo, su cosa vogliamo (o vorremmo), su cosa ci siamo lasciati per strada e magari non abbiamo mai confessato neppure a noi stessi.
Niente tentazioni di evasioni, capiamoci. Ma il paradigma di queste storie (e ne ho letto ancora tre su una decina di cui si compone il libro) fa comunque riflettere.
C'è anche la persona istruita (appunto il padovano Antonio, che si fa chiamare Leonardo) che sceglie di assaporare il mondo - potendoselo permettere con un padre accondiscendente e con un buon conto in banca - accorgendosi poi di perdere se stesso nel momento in cui si ferma, trova un'unione stabile e perfino un lavoro. E' proprio lì che inizia la sua rovina: anche se quel lavoro lo gratifica e gli riesce. Ma non è più se stesso.
E Giorgio? Appassionato universitario degli anni Settanta, anticonformista per quei tempi (si dichiara liberale in una generazione in cui se non sei anarchico o estremista, non esisti davvero), prova ad abbozzare una carriera da giornalista politico, ma non digerisce i diktat di un direttore intollerante, insensibile e probabilmente incapace di rivestire quello stesso ruolo. E dopo un mese saluta tutti e se ne va.
"Ci vuole una gran fatica ad alzarsi la mattina e chiedersi cosa fare per riempire la giornata... Ma è la mia giornata..." dichiara uno dei protagonisti.
A leggerlo così, sembra fantascienza. Eppure è tutto vero... e in queste storie c'è qualcosa di intimamente accattivante. Lontano anni luce dal mio modo di pensare e concepire una sola mezza giornata... ma piacevole. Come dondolarsi in un'amaca, in un tardo pomeriggio d'estate, sorseggiando una coca fredda con uno spicchio di limone: ecco l'immagine di questo libro. Un po' astratta... ma anche maledettamente stimolante.
Ma un’esistenza senza lavoro ha d’altro canto i suoi problemi: intanto la gestione economica e la sussistenza quotidiana (per chi non può permettersi il lusso di vivere di rendita), ma anche l’angoscia di questo ammasso di tempo libero da riempire. E soprattutto la guerra psicologica contro quelli che lavorano, che hanno il giorno pieno, che ti guardano come fossi appestato. Dalla donnina dello sportello dell’Inps che ti chiede: “Professione?”. E se rispondi, “nullafacente”, ti guarda come fossi sceso da Marte.
E allora vien da chiedersi: si può essere felici senza lavoro? Sono personaggi romantici o vigliacchi da disprezzare quelli descritti nel libro?
L’aspetto stuzzicante è che questa dicotomia ti insegue pagina dopo pagina: anche lo stesso personaggio, a tratti, appare un eroe – nella coerenza di una scelta contro tutto e contro tutti, francamente non facile. E a tratti mostra invece un'assurda incapacità di inseguire perfino il proprio talento, pur di fronte a dimostrazioni evidenti che “un lavoro onesto, dignitoso e anche magari redditizio, potrebbe scapparci”. In quegli istanti la scelta comunque di non mettersi in mischia appare pavida. E l’eroe diventa in realtà una caricatura di se stesso, e della propria utopistica ricerca di una libertà che rischia in realtà di “schiavizzare” ogni sua scelta.
La sorpresa è capire come non esista uno stereotipo di “non lavoratore”. Esattamente come non esiste per l’altra metà del mondo.
A conferma che ogni individuo “fa storia a sé”. E nel momento di esprimere un giudizio, chiunque dovrebbe ricordarlo.
Intervistando Serena Bortone ho cercato di cogliere le motivazioni che l’hanno spinta a cercare queste storie: sicuramente l’originalità e la vocazione provocatoria del modello, in un momento così’ difficile per chi il lavoro lo cerca disperatamente (del resto la collega è cresciuta nella Rai3 di Guglielmi, che ha sfornato autentici fenomeni del giornalismo tv in fatto di capacità provocatoria e dissacrante), ma anche questo interrogativo strisciante che serpeggia lungo ogni storia nella mente del lettore: ma io come potrei vivere senza lavoro? Starei meglio o starei peggio? E di me cosa penserebbero gli altri?
In fondo è un libro che aiuta a conoscersi meglio. E se non altro, a farsi qualche domanda, davanti allo specchio, che in altre circostanze non avremmo né motivo, né occasione – e forse neanche la necessaria lucidità – per porci.
giovedì 28 ottobre 2010
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