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sabato 19 marzo 2011

Sentenza sul crocifisso nelle scuole: una volta tanto non ha vinto Barabba...

L'ultima volta che si era trovato davanti ad un giudice questi se ne era lavato le mani. E Barabba si era ritrovato libero. Stavolta gli è andata meglio. Ma ci sono voluti più di 2000 anni.
La boutade può sembrare esagerata, ma da Gerusalemme a Strasburgo la strada è stata lunga. E tortuosa.
Ha fatto rumore la decisione della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell'uomo che ha assolto il nostro Paese dall'accusa di violazione dei diritti umani.
Qualcuno penserà agli sbarchi di Lampedusa o a qualche maltrattamento nelle carceri italiane sempre più sovraffollate (e con qualche morto di troppo ancora da spiegare).
Niente di tutto questo. Il j'accuse all'Italia riguardava l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.
La decisione della Corte è stata approvata con 15 voti favorevoli e due contrari. I giudici hanno accettato la tesi in base alla quale "non sussistono elementi che provino l'eventuale influenza sugli alunni dell'esposizione del crocefisso nella aule scolastiche".


Ad avanzare l'istanza una cittadina italiana di orgine finlandese che contestava la presenza del crocefisso nella scuola pubblica frequentata dal figlio ad Abano Terme, affermando che è "un attentato alla libertà di coscienza e al diritto di ognuno a ricevere un'istruzione conforme alle proprie convinzioni".
Convinzione che non appartiene però alla maggioranza degli italiani: l'84% degli intervistati in un sondaggio di qualche giorno fa, si diceva favorevole alla presenza del crocefisso nelle scuole.

Ma la questione non è da risolversi con la "classica conta". E' normale che la maggior parte dei cittadini di un Paese che resta profondamente radicato sulla cultura cattolica si esprima in questi numeri (anche se personalmente avrei scommesso per qualche punto in meno...).
Credo piuttosto che la vicenda corra sul filo del ridicolo, quando non addirittura del grottesco.
Per un motivo semplice: considerare il crocifisso un "attentato alla libertà di coscienza" è illazione che fa quasi rabbrividire. E se non si trattasse di qualcosa di sacro - o sentito come tale - farebbe solo sorridere.
Da studente liceale di fine anni Ottanta, ricordo fin d'allora qualche compagna di classe che molto liberamente aveva scelto di non frequentare l'ora di religione.
Allora qualche mosca bianca, oggi immagino che la tendenza sia in crescendo.
Uno Stato (e una scuola) che dia questa facoltà non mi sembra che obblighi nessuno a farsi il segno della croce.

Cosa ci sia da temere poi dietro quella croce, è interpretazione tutta da capire. Fino a prova contraria, chi ci è stato inchiodato non ha imposto nulla, non ha obbligato chi lo seguiva a farlo, e tanto meno chi lo ha condannato a recedere. Quella croce fa parte integrante - a mio avviso - della storia culturale e religiosa del nostro Paese, pur nel rispetto di differenti credo e sentori.

Diverso il discorso riferito alla Chiesa: in questi 2000 anni - dopo l'"errore giudiziario" che consentì a Barabba di tornare in libertà, senza neanche aspettare la decorrenza dei termini di carcerazione o la prescrizione, e senza neppure un Mastella che inventasse l'indulto - chi ha rappresentato quella croce non ha sempre brillato per coerenza con il messaggio di amore, tolleranza e fraternità che avrebbe dovuto incarnare. Anzi, quella croce è stata presa a simbolo - discrezionalmente - per lanciare guerre, per prevaricare, per creare uno stato temporale.
La storia ha già emesso la sua sentenza, su tutto questo, ben prima che venisse coinvolta la Corte di Strasburgo dalla solerte signora di Abano Terme - che evidentemente non dovrebbe avere molte altre faccende a cui pensare, o a cui destinare i denari che le saranno costati questa causa.
Giovanni Paolo II - tra i più degni successori di chi in quella croce è stato innalzato, tra sberleffi e scherni - ha chiesto scusa a tutto quel mondo che dalla storia della Chiesa, nei secoli, è stato offeso.

Quel che infastidisce di questa storia - detto da uno che non sopporta granchè le ostentate professioni di fede neppure dai suoi parenti più stretti - è l'accanirsi laicista e un po' modaiolo contro i simboli di una fede che oggi si vede costretta a lottare più contro "nemici interni" che non contro minacce esterne.
La parola "guerra santa" non viene coniata più neppure in quegli ambienti che si sono cibati di "jihad" (appunto, guerra santa) per lunghi anni.
Oggi il rischio - non della Chiesa in sè, ma della nostra società - è la perdita di quel patrimonio di valori che dietro quella croce vanno ancora ricercati. Non per essere imposti a qualcuno, ma per essere vissuti lungo le tracce di un insegnamento che fa parte del nostro retroterra culturale.
Lasciando libero che non ne sente la necessità, di tralasciarli. Senza però che quest'ultimo voglia imporre una "falsa libertà", perché per primo non riconosce la legittimità di una presenza - il crocifisso - che è sempre stata sinonimo di identità comune. E non certo di prevaricazione o sopruso.

Quando nel 2004 inaugurammo la niova sede di TRG, mia madre mi regalò un crocifisso da appendere nel mio ufficio. Per mesi (anzi, forse per qualche anno) l'ho lasciato nel cassetto. Più per inerzia che per volontà vera e propria. Poi l'ho ritrovato. E all'indomani di questa causa - che voleva porre al bando il crocifisso dalle scuole - ho deciso di issarlo anche sopra la porta del mio ufficio. Con silenzioso proposito di protesta.
Non credo che le centinaia di persone che sono entrate per i più disparati motivi, si siano sentite private della benchè minima libertà di pensiero o parola, da allora...

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