Il mio puzzle, i miei pezzi.Di ieri e l'altro ieri.

giovedì 17 marzo 2011

Un 17 marzo memorabile: perché lo "spirito" del passato ispiri anche le nuove generazioni... contro i nuovi "nemici"...

Oggi ne sono ancora più convinto. E’ stato giusto fermarsi un giorno per festeggiare. Questo 17 marzo 2011, in fondo, ce lo ricorderemo.
Magari anche per il clima uggioso, per un cielo gravido di inutile pioggerella inglese. Quella che sembra non esserci, sporgendosi dalle finestre, che non basta neppure a lavarti l’auto. Ma se esci ti lascia addosso l’umidità fastidiosa e usurante di un pomeriggio trascorso ad attendere che il sole faccia capolino.

Anche con questo clima, è stato giusto festeggiare. Perché in fondo si sarà pure perso un giorno di lavoro, qualche centesimo di punto di Pil (se ne buttano al vento tanti per motivi ben più futili) ma forse per il nostro bistrattato Paese – costretto a rifugiarsi in qualche vittoria sportiva per cercare di risollevare il morale di una “truppa” fin troppo demotivata – c’era bisogno di una sana iniezione di autostima. Oltre che rispolverare un capitolo nevralgico della nostra storia.

Conoscere e conoscersi per capire il presente e costruire il futuro. Questa è anche la storia. Questa in fondo è la nostra storia.
Lo capisci anche senza risalire all’epopea generale, ma approfondendo da vicino alcune vicende locali. Personaggi, aneddoti, episodi che in fondo fanno parte di quella più grande e generale scenografia che corre lungo il binario di tre-quattro nomi (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele) ma che senza l’apporto di intelligenze e soldati di ogni angolo del Paese non sarebbe riuscita a coronare il sogno unitario.

E in fondo non bastano i libri di storia – condizione necessaria ma non sufficiente – per entrare nel vivo della stessa. Per addentarne la polpa, assaporandone il fascino inconfondibile di qualcosa di vissuto, lontano dai palcoscenici mediatici, ma verace, spontaneo, esplosivo. Come era nelle menti e nell’anima dei giovani dell’800.

Ricordiamoci che i giovani hanno fatto l’Italia”: lo ha ripetuto più volte lo storico e studioso eugubino, Fabrizio Cece, con il quale ho registrato la puntata speciale di “Link” – dedicata a questa ricorrenza – all’interno del suggestivo Museo del Risorgimento di Palazzo dei Consoli, a Gubbio. L’unico allestito in forma permanente in Umbria – inaugurato nel dicembre 2007 nel bicentenario della nascita di Garibaldi. “I giovani che 19enni o poco più che 20enni non esitarono a imbracciare le armi e sacrificare la propria vita per un ideale vissuto come priorità assoluta: la libertà e in essa l’indipendenza nazionale”.
Un nome su tanti: Goffredo Mameli, che compose quello che oggi è l’inno d’Italia, morendo a 21 anni nella difesa della Repubblica Romana del 1849, i 150 giorni di interregno mazziniano nella Capitale, squarciati dalla restaurazione dello Stato della Chiesa. Un bagliore, rispetto al cammino vorticoso della storia, che generò i semi di una cultura giuridica poi travasata nell’attuale Costituzione italiana: “Mentre fuori Garibaldi se la vedeva con i francesi, Mazzini e i suoi alleati componevano lo Statuto della Repubblica Romana che conteneva per la prima volta principi poi divenuti irrinunciabili nelle carte costituzionali successive” ha ricordato l’avv. Marco Marchetti, nel corso della trasmissione, evidenziando anche preziosi cimeli di quel periodo – come un titolo di credito fruttifero emesso in quel breve periodo, sulla scia della confisca dei beni ecclesiastici. Un patrimonio di cimeli e di ricordi che oggi consente di “toccare” con i due sensi più efficaci per memorizzare la storia – il tatto e la vista – il vissuto del Risorgimento a Gubbio ed in Umbria. Grazie al “tesoro” conservato gelosamente dall’allora Podestà di Gubbio, Lamberto, che già nel 1936 – anche sull’afflato di una volontà del regime di valorizzare le imprese risorgimentali – allestì una preziosa collezione di memorie dell’Ottocento. Felicemente conservate dai suoi discendenti e rispolverate in modo lungimirante da alcuni anni grazie all’intuizione dell’a.d. di “Gubbio cultura e multiservizi”, Enrico Viola.

Quanti Mameli anche nelle nostre terre? Non hanno avuto la stessa fama, non hanno composto le stesse note immortali: si chiamano Angelico Fabbri, Domeniconi, Toschi Mosca – nomi ricorrenti nella quotidianità perché si rifanno a delle vie, ma che ancora troppi eugubini ignorano nel loro reale contributo storico. E accanto a loro, ancora più anonimi, ma non del tutto dimenticati grazie anche a questa rassegna espositiva, i Cesare Migliarini, i Filippo Marchetti, i Nazareno Agostinucci, i Porcello di Carbonana, e il primo sindaco dell’Italia unita, Luigi Barbi. Nomi, personaggi, esempi che per la comunità eugubina non poteva restare nell’oblio. Seppur legati ad alterne fortune. E anche a pensieri e filosofie diverse – dai mazziniani che riluttavano anche la monarchia ai più pragmatici patrioti legati ai Savoia.

L’Ottocento italico, in fondo, è questo puzzle. Un percorso tortuoso di tentativi arditi, di sogni illusori, di straordinarie imprese, mescolate a cocenti delusioni, sanguinose sconfitte militari, imbarazzanti dietrofront diplomatici.
E in fondo, in questo bailamme, in questo saliscendi di emozioni e realizzazioni, in questa “precarietà” politica e geografica che ha contraddistinto la storia dello stivale di quasi nove secoli, c’è anche la radice dello spirito bizzarro italico. Mescolatosi nel tempo alle influenze e ai miscugli etnici più disparati. Mosso però da una spinta interiore formidabile, animata proprio un secolo e mezzo fa dagli intellettuali, ma sostenuta dai ventenni. Quelli che qualche decennio dopo, troveranno degni eredi nei “ragazzi del ‘99” – la gioventù che contribuì alla Vittoria in senso stretto, il successo nella Prima Guerra Mondiale, da taluni identificata come la quarta e ultima guerra d’indipendenza.

E in questa giornata che di grigio ha solo il cielo, ma è costellata allegramente dai tricolori che, diffusi, sventolano dalle finestre e dai balconi – che, vivaddio, richiamano un po’ di storia e non solo qualche estemporanea gloria calcistica – mi piace pensare che tanti ragazzi, anche più giovani di quei ventenni che un secolo e mezzo fa abbracciarono l’ideale della Patria e imbracciarono i moschetti per conquistare la libertà, possano dedicare qualche minuto della propria quotidianità a queste vicende. Anche con una semplice passeggiata tra i quadri, i cimeli, e i pannelli illustrativi di una mostra come quella del Risorgimento, a Palazzo dei Consoli.

Pochi spiccioli strappati ad una playstation o ad una “vasca sul corso” per calarsi solo qualche istante in quella realtà. Con un ideale viaggio nel tempo, assaggiare quello spirito che animò gli allora coetanei. In un mondo diverso, lontano e distante, dai costumi e dai parametri educativi inimmaginabili oggi, ma i cui valori, il cui animus, ancora oggi dovrebbe in fondo, condurci come una bussola. Non più per armeggiare contro qualcuno – sperando che non ce ne sia mai bisogno – ma per combattere una battaglia forse ancora più insidiosa: quella per difendere una civiltà dell’identità, della memoria, del proprio tessuto culturale, che sinuosamente e in modo subdolo è minata, ogni giorno, da un dilagante lassismo. Di idee, di motivazioni, di futuro.
La nuova "Patria" si chiama cultura, studio, principi, meritocrazia: quasi un'utopia per un giovane che oggi si affaccia nella giungla del cosiddetto "mercato del lavoro". E i nuovi nemici sono la "scorciatoia" - in qualunque foggia possa prefigurarsi - la conoscenza trasversale, il mezzuccio, la mazzetta.
Non che la classe dirigente, di oggi, possa rappresentare un modello edificante – come lo erano gli “eroi” di quel tempo.
Ma per questo l’impresa che attende la nuova generazione è ancora più ardua, che vincere una guerra. Perché il nemico non ce l'hai di fronte. E' nascosto e le sue armi sono ciò che di più meschino i modelli attuali sappiano esprimere. E allora la sfida è semplice: aprirsi la strada del futuro, prendendo il poco di buono che il presente mette sul piatto, conservando i “tesori” che il passato ci ha saputo tramandare, e immaginare, sognare, ma anche realizzare un futuro degno di quel passato. Non nostalgico. Ma carico della dignità di chi di quel passato può andare giustamente orgoglioso.

Ecco. Festeggiare oggi è anche ricordare tutto questo. E trovare il tempo per quella breve passeggiata nella storia: boccata d’ossigeno rigenerante di un presente che un giorno difficilmente qualcuno riuscirà a mettere in bacheca.

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