E' la vigilia di un incontro molto interessante, promosso per domani sera a Gubbio dall'associazione "Articolo 3" - alla Sala Trecentesca di Palazzo Pretorio - ospite Peppino Englaro. E' il padre di Eluana, la ragazza tenuta in vita per 16 anni in coma, e al centro di un'accesa polemica che nel 2009 vide dividersi l'Italia tra coloro che chiedevano - dopo oltre tre lustri di esistenza vegetale della ragazza (vittima di un drammatico incidente stradale) di "staccare la spina" e lasciare la giovane a quella che in altri paesi è definita "dolce morte"; e chi invece parlava di "omicidio" chiedendo altresì di esperire ogni iniziativa per consentire al suo cuore di continuare a battere.
L'articolo è un editoriale che scrissi nei giorni della infuocata polemica sul caso Eluana Englaro: una di quelle vicende nelle quali l'opinione pubblica italiana - maestra nel dividersi tra guelfi e ghibellini - ha vissuto giornate incandescenti, salvo poi dimenticare puntualmente il nocciolo del tema, il cosiddetto testamento biologico. Di cui, nel pro o nel contro, oggi non si parla più. Sembra un secolo fa, ma parliamo di marzo 2009.
Di seguito l'articolo che scrissi in quei giorni su "Gubbio oggi". Una riflessione da condividere insieme, che resta d'attualità, e non solo per l'incontro di domani...
Da "Gubbio oggi" - marzo 2009
Premettiamo subito una cosa: questo articolo non parlerà di Eluana Englaro. Lasciamola in silenzio, quel silenzio che forse avrebbe meglio accompagnato la sua vita e la sua morte, di quanto non abbiano fatto campagna mediatica e polemiche politiche.
In silenzio invece non si può (e non si dovrebbe) restare di fronte all’interrogativo che la vicenda di Eluana ha inevitabilmente posto.
Chi decide della nostra vita?
Se esistesse un pulsante con su scritto “felicità” chiunque di noi lo premerebbe, salvo poi accorgersi che magari il concetto di felicità (quella vera) è molto più semplice e “frugale” di quanto la quotidianità moderna ci illuda che sia.
Il problema di fondo, non è neppure chi debba decidere della nostra vita, posto che la scienza è quasi sempre più un arbitro importante in questa partita (oggi si vive di più e si muore più tardi grazie al progresso della medicina e si spera che negli anni il feeling continui).
Il problema sostanziale è: a chi spetta definire ciò che è giusto o non giusto? Ciò che è bene o è male per la nostra salute, per la nostra stessa esistenza?
Deve farlo la scienza, il progresso? Oppure la fede, i dogmi religiosi? O magari il semplice buon senso?
Se affidassimo tout court la risposta ad uno di questi “criteri” non potremmo avere una lettura oggettiva. Che forse non esiste neppure.
Ma non si può nemmeno ignorare uno “schema di valori” intorno al quale la nostra cultura (per nostra, comprendiamo quanto meno il nostro Paese) è cresciuta, volente o nolente, negli anni.
Francesco Alberoni, che non risulta essere filo vaticanista, ma è di sicuro un attento osservatore degli intrecci psico-sociologici del nostro tempo, scrive sul “Corriere della Sera” che la scienza “non può dire cosa è bene e cosa è male”, può dirti cosa puoi fare “ma non potrà mai dirti cosa è giusto fare”. L’universo scientifico non utilizza categorie morali: e Alberoni cita un esempio limpido, l’energia atomica.
Sarebbe stata risolutiva sul fronte della sfida per l’energia, ma c’è anche chi ci ha costruito una bomba. Questo non significa che l’energia atomica sia devastante, può esserlo il suo cattivo utilizzo. Dunque, non può essere la scienza da sola a dirci che tutto ciò che è realizzabile, è per ciò stesso buono.
Ci sono valori (diremmo naturali) legati alla convivenza, al rispetto, alla comune appartenenza ad un mondo che non può legittimare il prevalere dell’uno sull’altro – in una parola, l’etica - che trascendono, superano, sono al di sopra di qualsiasi scoperta pur straordinaria.
Così la vita – se anche grazie alla scienza può rimanere appesa ad un filo o ad un tubicino - non dovrebbe essere collegata ad un bottone con su scritto “felicità”. Lo pigi (o lo stacchi, a seconda delle situazioni) e il gioco è fatto. Troppo semplice.
Un po’ ingenuamente mi sono chiesto spesso cosa avrebbe detto Eluana di tutto questo bailamme. Quando lei è finita in coma il mondo era lontano anni luce da come è oggi: tanto per fare un parallelismo con la cronaca, nel gennaio del ’92 non era neppure scoppiata Tangentopoli, Berlusconi era “solo” il presidente del Milan, Amato guidava l’ennesimo Governo a scadenza, Cossiga picconava in attesa di lasciare il Quirinale. Non esisteva internet e nemmeno i telefoni cellulari.
Da allora Eluana era su un letto, sventurata come la sorte che l’aveva colpita. Come migliaia di persone, che hanno conosciuto il suo stesso destino o addirittura che l’hanno trovato fin dalla nascita.
Che si fa? Si lascia loro decidere cosa è meglio? O ci si affida ad un “decalogo di valori” maturati nei secoli da una civiltà che ha comunque sempre cercato – pur tra mille contraddizioni – di difendere la vita?
I casi limite, come quello di Eluana, non possono di per sé diventare l’unico elemento paradigmatico di una riflessione e un dibattito così profondi e difficili.
Un punto deve essere chiaro: chiunque ha diritto di esprimere la propria opinione, senza avere pregiudizi e senza esserne vittima. Dagli intellettuali, agli scienziati, alla Chiesa – molto spesso oggetto di snobistiche valutazioni. Ben sapendo che quei valori di “diritto naturale” (l’etica) non possono essere cancellati solo perché la scienza ha fatto passi avanti e appartengono alla società non perché calati dall’alto, o pronunciati da una qualche autorità, ma perché vissuti come una corazza necessaria. Irrinunciabile. Proprio come la vita.
Qualcuno la chiama fede. Qualcun altro buon senso. Parametri che dovrebbero farci dire, sempre e comunque, che una vita è tale e va difesa fino a quando è vita. Anche se non è vissuta con la fortuna che accompagna la stragrande maggioranza delle persone (che nel frattempo, ignorando quali siano i veri “problemi” si arrabattano per futili motivi).
Questi interrogativi – magari senza riuscire a trovare una risposta limpida - ci accompagneranno sempre. Ovunque arrivino la tecnologia e la scienza.
Se il caso Eluana ha un “pregio”, è stato di ricordarcelo. Anche a distanza di 16 anni da quell’incidente. Anche in mezzo ad una crisi che ogni giorno di più sgretola certezze e ci fa pensare a tutt’altro.
GMA
martedì 9 novembre 2010
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