Si chiama Yara. Ma potrebbe chiamarsi in qualsiasi altro modo. Anna, Laura, Michela, Francesca, Elisa. O anche Sara.
Ma forse Yara aiuta a ricordarla meglio. Un nome strano, di quelli che se ne hai motivo, difficilmente dimentichi. E la cronaca di questi giorni non ci farà correre questo rischio. Purtroppo per Yara.
E' la tredicenne scomparsa a Brembate, popoloso centro del Bergamasco, finora noto solo per antico castello preda di Federico Barbarossa. Una di quelle località della provincia italiana che, speriamo, non diventi tristemente famosa per motivi di cronaca.
Intanto la scomparsa di Yara riporta all'attualità il caso di Sara, che l'attualità non l'ha mai abbandonata: con l'assurdo avvicendarsi di versioni, testimonianze miste a confessioni e un groviglio di verità che più si scopre, più assumono le tonalità dello squaliido e del macabro.
Yara con tutto questo non c'entra. Se non per un aspetto, che appena 4 giorni di cronache televisive hanno messo crudemente a nudo. Il valore esponenziale della comunicazione, dell'impatto della cronaca sull'emotività dell'opinione pubblica, del mistero che sfuma gradualmente in una verità di cui nessuno vorrebbe sentir parlare ma che tutti (o quasi) attendono morbosamente attaccati al telecomando.
E' la testimonianza confermata da un editoriale di Maria Latella su come anche in un ambulatorio medico, provvisto di tv, i presenti in attesa del proprio turno, abbiano conversato tranquillamente durante i servizi sul caso Wikileaks, per poi calare nel silenzio claustrale al momento delle immagini e del servizio sulla scomparsa di Yara.
E' chiaro, la cronaca fa più notizia. E fin qui nessuna novità. Ma dove stia il confine tra il semplice informarsi e quel qualcosa in più che l'informazione attuale - specie in tv e in rete - punta a cavalcare, è difficile dirlo.
Un dubbio che mi sorge spontaneo leggendo di un tizio che, proprio a Brembate, sembra essersi inventato testimone proprio sul caso Yara: avrebbe reso spontanee dichiarazioni agli inquirenti, relative ad un presunto avvistamento della ragazza nelle ore in cui è scomparsa (sembra in compagnia di due uomini vicini ad un'auto). Una testimonianza rivelatasi, a detta degli stessi inquirenti, del tutto inattendibile, tanto da portare alla denuncia contro lo stesso individuo.
Su di lui, nel frattempo, si erano accesi i riflettori, i microfoni erano passati al tasto on e i taccuini cominciavano a sfogliarsi rapidamente. "Re per una notte", verrebbe da dire citando il celebre film di Scorsese con De Niro, ma qui non siamo al cinema. E c'è di mezzo, forse, la vita di una bambina ancor meno ragazzina di quanto già non fosse Sara Scazzi.
Eppure il fascino morboso della telecamera puntata, del proprio volto sul piccolo schermo, delle proprie dichiarazioni rilasciate a tg e approfondimenti pomeridiani e serali, è stato più forte di tutto.
Questa mitomania galoppante fa il paio con le immagini disgustose del "turismo dell'horror" nella casa di Avetrana. E ci danno la cifra di una pochezza sociale che dovrebbe preoccupare quasi quanto il ripetersi di certi episodi di cronaca.
Questi purtroppo ciclicamente, ci sono sempre stati. Il protagonismo di chi invece non si fa scrupoli di raccontare frottole, pur di finire in tv, è una piaga nuova e del tutto incontrollabile.
Senza dover scavare nelle responsabilità e nel solito gioco dell'"è colpa di chi", anche l'informazione, su questo, dovrebbe sapersi interrogare. Guardarsi allo specchio. E cercare di ritrovare il senso della propria mission. Sicuramente lontana dai plastici, dalle dirette non stop, dalle sfilate di criminologi cui assistiamo quotidianamente da troppo tempo...
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