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giovedì 1 agosto 2024

Il mio "Diario Olimpico": dalla prova del peso alla "prova del sesso", nuova frontiera della boxe. E un selfie a ping pong potrebbe fare la storia...

Un tempo si doveva passare "la prova del peso". Oggi si chiede di superare "la prova del sesso". La boxe olimpica - destinata ad essere cancellata dal programma dei cinque cerchi già dalla prossima edizione - si prepara a celebrare una sorta di "canto del cigno" con l'inedita sfida delle 12.20 di oggi, tra l'italiana Angela Carini e l'atleta algerin* (scusate l'asterisco ma mai come stavolta sembra opportuno) Imane Khelif. Doveva essere un normalissimo ottavo di finale della categoria pesi welter e invece si appresta a diventare - a prescindere (ma non troppo) dal risultato - una gara "storica" del cammino olimpico. Perchè Imane Khelif nasce il 2 maggio 1999 e - recita testualmente la sua biografia - partecipa fin da tenera età "a gare di boxe con atlete di sesso femminile". Specifica non scontata per chi evidentemente sul piano ormonale non appartiene al 100% a questo genere. 

Imane Khelif è infatti una delle due atlete ammesse dal CIO (l'altra è la taiwanese Lin Yu Ting) alle gare di boxe femminile, nonostante appena 1 anno fa la Federazione internazionale di boxe le avesse squalificate in quanto "si rilevava un tasso troppo elevato di testosterone". Formalmente il suo caso non va inquadrato nella sfera dei transgender, ma l'atleta presenta differenze dello sviluppo sessuale che in una disciplina come il pugilato non sono un dettaglio. Specie se poi ci si ritrova a "boxare" contro una donna (per dirla alla parigina) tout court. Inevitabili le polemiche, le strumentalizzazioni anche politiche, e i riflettori di mezzo mondo su un confronto che altrimenti, sarebbe quasi passato inosservato. Qualche interrogativo però questa storia non può non presentarlo, prima di essere liquidata con le solite divisioni tra tifoserie opposte. Qui non si discute di morale o di principi oggettivamente intangibili come quelli dell'inclusività. Qui si parla di etica sportiva, di correttezza delle pari condizioni in cui un atleta si confronta con un altro. Con l'assurdo che in nome della "religione dell'inclusività" si finisca per penalizzare chi non dovrebbe preoccuparsi del sesso del suo avversario.

E allora: e' giusto che di fronte a situazioni così evidentemente border line, al limite della correttezza (intesa come pari condizioni in cui ci si confronta) la manifestazione sportiva per eccellenza debba tacere o in qualche modo adeguarsi ad un principio non meglio precisato, di parificazione dei generi anche laddove questa "uniformità" è tutto meno che scontata? Iman Khelif si sente una donna ed ha pieno diritto di farlo. Ma non basta questo per gareggiare con un'altra donna. Nessuno le impedisce magari di indossare un tacco 12 o sfoggiare l'ultima tonalità di rossetto, ne ha piena libertà. Ma se le condizioni del suo status ormonale non rientrano in parametri di "oggettività" per essere inserita in una competizione femminile - e ci si chiede cosa sia cambiato tra il 2023 e il 2024 se non la federazione che l'ha "misurata" - allora il problema è rilevante. Perchè la sua libertà e il suo diritto di competere e partecipare all'Olimpiadi hanno un limite: quello delle sue avversarie di confrontarsi con una donna. Perchè? direte voi... Semplicemente perchè una donna deve confrontarsi con un'altra donna, in qualsiasi disciplina sportiva (a parte l'equitazione, unica in cui è ammessa competizione mista): tanto più in quegli sport di contatto dove più che l'aspetto, sono la forza fisica, l'energia del colpo inferto, la prestanza dovuta ai testosteroni, a fare la differenza e addirittura possono diventare fonte di un "intervento violento". Continueremo a sentirne di ogni, su questo caso. La gara si farà. Con quel preludio che sa tanto di rivoluzione sportiva, prima ancora che culturale: legata al fatto che una delle due contendenti ha dovuto superare "la prova del sesso".


Le Olimpiadi di Parigi non ci offrono solo queste storie controverse, ma sono teatro anche di gaffe clamorose. Come l'inno del Sudan messo in onda per la nazionale di basket del Sud Sudan (tra i due Paesi non corre esattamente buon sangue) o peggio ancora con lo speaker che nella cerimonia inaugurale annuncia per ben due volte la Corea del Sud come Repubblica Popolare di Corea (che è quella del Nord). A mettere d'accordo tutti, almeno per quest'ultima frittata, ci ha pensato il ping pong. Disciplina solidale, che fin dai tempi di Mao e Nixon fece fare pace nei rapporti tutt'altro che idilliaci tra Cina e Usa. Ieri è stata l'occasione per un selfie storico, quello tra le nazionali delle due Coree finite sul podio insieme all'immancabile Cina, e immortalate tutte insieme (non appassionatamente  ma pur sempre insieme) in un'istantanea che si candida tra i flash simbolici di questa edizione. Sul 38mo parallelo i rapporti resteranno tesi anche dopo questa sfida a ping pong. Ma almeno un segnale questi atleti, pure coraggiosi, lo hanno lanciato...

Finiamo con le nostre medaglie, che sono diventate 13, non il massimo rispetto a quanto poteva esserci nelle previsioni (con il tetto delle 41 di Tokyo ancora non preventivabile). Restano alcune discipline "fedeli" al podio: come la scherma, che seppur con qualche delusione (e furto) nelle gare individuali continua a garantire il suo budget e come anche il tiro a volo del presidentissimo folignate Luciano Rossi. Dopo 12 anni torna a fregiarsi di una medaglia lo skeet femminile grazie a Silvana Stanco, splendido argento alle spalle dell'outsider Ruano che ha portato niente meno che in Guatemala la prima storica medaglia d'oro olimpica. Il mirino azzurro resta caldo. E magari non è finita qui...

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