Si è scritto e detto tanto di Steve Jobs. Ancora non è spenta l'eco della sua prematura scomparsa, anche se l'impronta del suo fare, del suo cercare sempre con ossessione di creare, il suo essere "affamato e folle", lascerà un segno forte e caratterizzante di quest'epoca.
Eppure nel capitolo "riflessioni" del mio blog, mi piace inserire stasera questo pezzo firmato dal collega (e amico) Simone Zaccagni. Che come spesso gli accade, viaggia tra la parodia e il paradosso per accompagnarci ad una riflessione significativa. Di come certi miracoli, forse, avvengono in un luogo, piuttosto che in un altro, non a caso.
Un po' quel dilemma che era al centro della scommessa tra i due uomini d'affari (i fratelli Duke) protagonisti dell'indimenticabile film "Una poltrona per due"...
E SE STEVE JOBS FOSSE NATO A GUBBIO?
"Non ho mai usato un computer Mac, né iPod, iPhone, o iPad. Nonostante sia un amante della tecnologia, la seguo solo quando essa mi migliora le cose, quindi ho volentieri cambiato il walkman con il lettore cd portatile, poi con quello per mp3. Sono passato dal vhs al dvd, dalla Girardengo rossa alla mountain bike, così come per la mia passione di fotografia ho abbandonato senza tanti rimpianti il rullino e abbracciato la digitale, prima una compatta, adesso maneggio una lussuosa reflex. Però per leggere i libri preferisco ancora la carta, quindi l’iPad può attendere. Stesso discorso vale per il cellulare: mi basta che suoni quando qualcuno vuole parlare con me e viceversa. Detto questo, ho da sempre ammirato la figura di Steve Jobs, uno che si fatto da solo, si è distrutto l’impero da solo per il piacere di ricostruirlo come io facevo con i mattoncini LEGO da piccolo. Dopo la sua morte in tantissimi hanno onorato la memoria del visionario che ha cambiato il nostro modo di comunicare. Colui che ha saputo coniugare crescita, innovazione, successo economico, tecnologia, carisma personale e qualità dei prodotti. Ha saputo inventare nuove necessità in un mondo che ne sembrava ormai saturo. Il solito discorso del cellulare, che oggi ci sembra indispensabile, ma fino a 15 anni fa nessuno l’aveva e si viveva ugualmente.
Ma quanto conta l’uomo e quanto l’ambiente che lo circonda?
E l’epoca? Se Leonardo invece che nella Toscana del Rinascimento fosse nato nel Sannio all’epoca delle guerre italiche? Magari sarebbe stato lui il promotore delle forche Caudine, ma poco altro. Insomma, se Steve Jobs fosse nato a Gubbio avrebbe avuto le stesse possibilità? Innanzitutto si sarebbe chiamato Stefano Lavori (certo che il futuro l’aveva scritto già nel cognome…) che fa un po’ meno effetto, ma se ci pensiamo bene anche Tommaso Crociera e Nicola Gabbia non suonano tanto bene rispetto a Tom Cruise e Nicolas Cage. E forse se Ivano Fossati si fosse chiamato Ivan Ditches il suo successo “My band plays rock” sarebbe stata una pietra miliare della musica pop. Va beh, torniamo a Steve Jobs: nasce come figlio indesiderato, la madre lo dà in adozione, e poco tempo dopo, nonostante un ripensamento dei genitori adottivi, è in una nuova famiglia. Da noi adottare un figlio richiede soldi, tempo e tanta, tantissima burocrazia, quindi il nostro Stefano probabilmente sarebbe cresciuto da Suor Dorotea Mangiapane, fino a 4 o 5 anni e sarebbe tornato il 13 dicembre di ogni anno per mangiare le cotiche coi fagioli a Santa Lucia. Steve Jobs ha creato Apple dal nulla, a 21 anni, con un amico di 26. Da noi è un giovane imprenditore chi lavora nell´azienda dal padre, o l´eredita. Jobs non si è laureato: ha abbandonato gli studi per fondare la Apple, pur continuando a frequentare i corsi del campus, soprattutto quelli che lo affascinavano. Ecco che andò a seguire le lezioni di calligrafia ed è grazie a quelle cose apprese che noi oggi abbiamo i vari font con i quali scriviamo anche con Windows (il suo odio per i rivale Bill Gates derivava molto dal fatto che il signor Microsoft aveva copiato molte cose dal Mac). Da noi si passano sei anni a studiare economia all´università con l´aspirazione di andare a lavorare per qualcuno: meglio se una banca o lo studio del padre.
Oppure le lezioni sono così pedanti che ti fanno odiare anche ciò che all’inizio ti piaceva: ricordo un esame di letteratura greca in cui dovetti imparare a memoria, e dico a memoria, 8 canti dell’Odissea con il docente (un mostro sacro sui cui libri avevo studiato al liceo) che si intestardiva a ricercare aoristi ed eccezioni, ma mai una volta che avesse detto: “Che intelligenza questo Ulisse, che fantasia Omero!”.
E come se nell’illustrare “Amore e Psiche” che è una poesia di marmo, vi parlassero dello scalpello di Canova.
Ma che fine ha fatto Stefano Lavori? Ah già, si è messo in proprio. Da noi mettersi in proprio è un incubo, non un sogno. Jobs ha cominciato l´attività in un garage, pagando i fornitori con il credito ottenuto grazie a un ordine di computer che esistevano solo sulla carta. Da noi, nessuno fa credito a un´idea, il garage non avrebbe rispettato le norme di sicurezza e non ci sarebbero stati i soldi per il commercialista, notaio e Camera di Commercio e l’avrebbe potuto usare solo d’estate, perché per il resto dell’anno da noi ci si mette la legna…
Jobs ha portato la Apple in Borsa nel 1980, appena quattro anni dopo la fondazione, per crescere. Da noi si colloca in Borsa la quota di minoranza di un´azienda matura, per fare cassa. Jobs adottò come simbolo della sua azienda una mela, rubando il concetto a Newton e il disegno ai Beatles: Stefano Lavori chi avrebbe potuto plagiare, i Pooh? Non l’hanno nemmeno un simbolo, al massimo Winnie the Pooh! Nel 1985, Jobs è stato estromesso dalla Apple. Per comandare in azienda non basta averla fondata: bisogna dimostrare agli azionisti di essere sempre i più bravi. Il vero capitalismo è meritocratico; il merito non ammette gratitudine o corsie preferenziali. E lo si conquista coi risultati, non con la buona stampa. Jobs è stato richiamato alla guida della Apple nel 1997: senza di lui, la società era cresciuta in media dell´11%; col suo ritorno, la crescita è quasi raddoppiata. Da noi, meglio essere “figli di”, o “amici di”. Cacciato dalla Apple, Jobs ha creato due società: la NeXT, fallita perché troppo innovativa; e la Pixar, ceduta alla Disney per 8 miliardi. Da noi, con i soldi della Apple, Jobs avrebbe fatto il finanziere, acquisendo partecipazioni, o investito in immobili. Jobs comandava in Apple con lo 0,6% del capitale. Una fetta minuscola di una torta gigantesca. Da noi si comanda perché si ha il controllo; preferendo una grande fetta di una torta che, per questa ragione, rimane piccola. In quanto azionista, Jobs rinunciava a qualsiasi compenso da amministratore delegato. Da noi gli azionisti, anche se di controllo, si pagano lauti stipendi, stock option e benefit aziendali. In Apple ci sono 7 consiglieri. Da noi, spesso non ne bastano 15. La Apple oggi vale 360 miliardi, quasi l´80% di tutta Piazza Affari o il Pil dell´Argentina. Ma i suoi quattro top manager hanno in media uno stipendio di 530 mila euro, più 560 di bonus garantito; da noi, roba da dirigente bancario. Il vero bonus milionario è pagato solo in azioni, e in base ai risultati: ai quattro sono andati 146 milioni nel 2010; avendo Apple realizzato 14 miliardi di utili. Nessuno si scandalizza. Anzi. La Apple delocalizza ed esternalizza la produzione in Asia e in Paesi a bassa fiscalità. Da noi verrebbe accusata di scarso senso sociale.
Il principale azionista (col 5%) è un fondo americano; ma se fosse cinese o di Abu Dhabi nessuno invocherebbe la difesa dell´”americanità”. Apple opera in un settore innovativo, tecnologico, e altamente concorrenziale; ma per quanto “strategica” non ha mai pensato a chiedere il sostegno dello Stato. Se la Apple sbaglia, fallisce perché, come ha detto Jobs, «la morte è la più geniale invenzione della vita: spazza via il vecchio per far posto al nuovo». Un´Apple è possibile nel capitalismo di mercato americano. Da noi no. Vorrei ricordare Steve Jobs come emblema di quello che è, può e dovrebbe essere il capitalismo di mercato, una lezione da imparare a memoria.
E a Gubbio cosa sarebbe finito a fare Stefano Lavori? F orse il riparatore di computer e avrebbe inventato, chissà, un nuovo tipo di balestra…".
Simone Zaccagni
tratto da "Gubbio oggi" - novembre 2011
mercoledì 16 novembre 2011
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